A Timisoara I Monologhi della Solitudine, riflessione sui nostri tempi amari

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Tre grandi piazze compongono il centro vivo e pulsante di Timisoara. Piazza dell’Unità, della Libertà e di Traiano. Proprio da queste partì la rivoluzione dell’89 che destituì il dittatore Ceausescu che affamava il suo popolo. Nelle vie limitrofe si incontrano tante statue e sculture che riempiono la città di arte, sguardi, scatti. Due i musei di arte contemporanea, tre teatri principali, quello rumeno, quello in lingua tedesca e quello in lingua ungherese. La chiamano la piccola Vienna. Timisoara è al confine con la Serbia e con l’Ungheria, popoli che abitano nella città rumena da generazioni. 10.000 invece sono gli italiani qui a fare business e ristorazione. Curiosità: il 12 novembre 1884 fu la prima città europea ad avere l’illuminazione nelle strade. Quest’anno è stata nominata Capitale della Cultura Europea insieme alla greca Eleusi e alla ungherese Veszprem. Nel centro cittadino anche una sorta di grattacielo a sei piani di impalcature che presentava oltre 1300 piante diverse lì coltivate in altezza, quasi un bosco verticale e l’iconica strada con centinaia di ombrelli arcobaleno a fare da copertura, da cielo multicolore. Qualche anno fa eravamo stati due volte in Romania, entrambe a Cluj, per seguire il festival International Meetings at the National Theatre e per vedere il Giardino dei Ciliegi diretto dal regista di Pontedera Roberto Bacci.

Oltre i teatri ufficiali altre compagnie si muovono nel teatro indipendente. Una di queste è Arte Factum (composta da attori ungheresi, rumeni, moldavi, che recitano nel teatro nazionale o in quello tedesco) formata dall’autrice Mona Donici e dal regista Levente Kocsardi, collettivo attivo dal 2008 con mostre, festival di cinema e teatro (il loro Teszt in maggio è arrivato alla quindicesima edizione), spettacoli teatrali, concerti. Ultima loro produzione è stata il catartico Monologhi della Solitudine, all’interno del teatro indipendente Studioul Franciscan, una sala che si sviluppa per lungo lasciando davanti agli spettatori tre scene che alternativamente si accendono con quadri (saranno dodici alla fine, come i mesi dell’anno o gli apostoli, come le tribù di Israele e come i patriarchi) per due ore cariche di pathos, passione, un testo scoppiettante, coinvolgente, supportato da attori capaci, sempre in parte, nei monologhi come nelle scene collettive. La solitudine declinata nelle sue, purtroppo, mille versioni e sfaccettature, il dramma, il ridicolo, gli hikikomori, i giovani non integrati, gli anziani senza supporto, solitudini differenti con un unico comune denominatore, l’abbandono, l’essere considerati rifiuti, marginali, vuoti a perdere, sacrificabili sull’altare della felicità altrui, della velocità della vita, del cercare di andare avanti tranciando affetti e relazioni.

La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza (Pier Paolo Pasolini)

 

 

La scena è semplice ma proprio per questo diventa esplosiva di significati perché regala nuovo senso agli oggetti come ai gesti: scatole di cartone fanno da fondale nei due stage laterali mentre al centro una gabbia viene agita adesso da dentro, con il mondo chiuso fuori o emarginato recluso dentro, o sopra con l’ego accresciuto ed esondante, fallace e fallico tentando di guardare più lontano perché il presente non ci soddisfa. Ecco l’Intelligenza artificiale, la famigerata AI, che ci renderà ancora più inutili e senza lavoro, senza costrutto e senza importanza sociale, da una parte la tecnologia in antitesi alla sensibilità umana; ecco il ragazzo sognatore che pesca, bucolico nello stagno dei desideri e vive (come Huckleberry Finn o Tom Sayer di Mark Twain) nella sua gabbia per polli, cubo e stia dove non c’è spazio per i sogni ma soltanto per i traumi (che in tedesco traum significa sogno…); oppure ecco la signora in carrozzina lasciata a se stessa, con i suoi ricordi, con i suoi occhi languidi e bagnati di malinconia. Le persone sono sempre più sole, impaurite da quello che accade all’esterno, chiuse nelle proprie case-loculi, passando le giornate tra i loro computer e smartphone credendo che sia lì dentro la felicità, una soddisfazione astratta e pulita senza conflitti senza amore, senza affetto, consolatoria, asettica, oggetti e strumenti che pensiamo di utilizzare e invece ci utilizzano, ci usano come consumatori e mai come persone, tu chiamalo algoritmo se vuoi.

La solitudine è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno (Jim Morrison)

Scorrono i dati statistici sulle persone marginalizzate in Romania (i dati saranno simili a quelli europei) e ci vengono i brividi. Questo Monologhi sulla Solitudine è una riflessione ampia e solida, un’analisi approfondita sul ventaglio di possibilità e cause che portano l’uomo moderno, che è e rimane sociale ed ha bisogno di stare in mezzo agli altri altrimenti si inaridisce e impoverisce e muore prima del tempo, a chiudersi sempre più nel suo guscio perché impaurito, perché incompreso, perché scosso. Il ragazzo sognatore ha un codice a barre tatuato sul petto nella sua dimensione simile a quella di Avatar, è solo come un Robinson Crusoe sulla propria isola sperduta o come Ulisse tra i flutti. In questo incantesimo visionario la solitudine psichedelica è fintamente considerata come una gioia (quello che vorrebbe l’uomo moderno sempre in costante contraddizione: ha bisogno degli altri ma ambisce e spera e brama illusoriamente un’isola deserta), una Wonderland dove tutti possono essere autonomi e indipendenti e autocratici. E’ una considerazione anche sul concetto di lavoro che ha stravolto l’esistenza degli umani, spingendo al contrario per un ritorno alle origini, all’ancestralità animale, tornando alla naturalezza, a quell’essenza primordiale (quasi un Into the wild) che ancora si muove e alberga dentro di noi e, insofferente e insoddisfatta, spesso fa capolino per poi rintanarsi delusa e depressa. Entrano in scena aguzzini con le mele in bocca, sputandole con violenza e rancore (una sorta di novelli Adamo ed Eva incattiviti) che colpiscono questo uomo (quasi un contrappasso) ingabbiato come belva allo zoo e i pomi del peccato scagliati addosso senza pietà. C’è la sposa abbandonata sull’altare, la non-vedente pianista. L’atmosfera è epica, profuma di tragedia e di Mito greco con la sconfitta che aleggia e gli Dei che puniscono l’arroganza dell’uomo nel considerarsi autonomo e senza legami. I quadri si susseguono, i video scorrono, canti, coreografie, musica: tutto è ben calibrato, preciso, armonico nel caos dettagliato di queste infelicità esposte, in questa autopsia delle nostre società che ci reprimono e che non ci fanno essere noi stessi ma soltanto numeri da incasellare, contribuenti sostituibili, pedine da spostare o da cestinare.

Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia (Jean Paul Sartre)

 

 

E’ straziante l’anziana in sedia a rotelle tra i palazzi a blocchi comunisti nel suo canto disperato che ci entra nello sterno e ci fa vibrare la cassa toracica. Ormai (il Covid e il conseguente Lockdown non ci hanno certo aiutato ma hanno accelerato un processo iniziato con lo smartworking) ci siamo autosegregati nelle nostre ovattate abitazioni, sempre più minuscole e senza aria fresca respirabile per aprire il cervello, a guardare fuori dalla finestra senza uscire, a vedere distrattamente documentari senza viaggiare, perdendo la curiosità del fare, della scoperta, la bellezza delle piccole cose. La storia dell’ottantenne giapponese che vaga per Tokyo con un cartello al collo chiedendo di essere adottato da una famiglia per gli ultimi anni della propria vita, pur essendo autosufficiente economicamente, ci ha fatto davvero male. Sia per la sua storia, reale e veramente accaduta, ma soprattutto per la sua conclusione: nessuno in città considera l’uomo che anzi viene scansato, malvisto come un clochard. Soltanto la fotografia di un ragazzo che mette la sua immagine sui social e fa diventare la sua storia virale (quanto è brutta la parola virale!). Solo allora centinaia di famiglie si attivano per adottare il signore, non certo perché toccate dalla sua vicenda personale ma in quanto ormai diventato un caso nazionale portato all’attenzione dei media, volendolo salvare non in quanto persona ma in quanto personaggio. Conclusione ancora più grottesca, ridicola e paradossale: quando arrivano tutte queste richieste di adozione il signore ottantenne è ormai deceduto nell’anonimato e nella solitudine. C’è una giovane coppia dove i due guardano insistentemente il proprio telefono senza parlarsi, senza interagire, chattando e bastandosi, ridendo da soli nella propria bolla di notifiche e meme, di gif e screenshot, video e balletti su Tik Tok, mondi distanti, separati, vuoti, soltanto virtuali senza un briciolo di materialità, di concretezza, di amore per l’altro e verso se stessi.

Siamo sempre, tragicamente soli, come spuma delle onde che si illude di essere sposa del mare e invece non ne è che concubina (Charles Baudelaire)

Chi si riempie di botox per riempire i vuoti dell’anima, chi fa shopping compulsivo aumentando quel buco che ci mangia dall’interno come verme solitario, come tenia che scava in noi. Ci sono quelli che si fanno in continuazione fotografie e video dove si divertono e ridono solamente per farsi invidiare da persone che a casa, davanti ad uno schermo non sanno che anche chi ha fatto quegli scatti si sta annoiando ed è infelice quanto o più di lui. Non si vuole più essere felici ma apparire felici e soddisfatti, ricchi, invidiabili. E’ tutta una finzione: chi è veramente felice non sta con il telefonino in mano. Il paradosso è che adesso la vita reale si svolge su Instagram e Facebook, crediamo di non essere niente se non appariamo, se non postiamo. Vorrei ma non posto. Dobbiamo/Vogliamo essere invincibili, mai deboli, mai sconfitti, sempre perfetti, mai fallimentari, è questo che ci condanna alla solitudine, è questo che fa aumentare la depressione e l’ansia da prestazione in un’alternanza continua tra up e down, tra euforia e disperazione, tra esaltazione e risa isteriche e pianti irrefrenabili. Il ragazzo è intrappolato (ma dall’altra parte è una clausura volontaria per timore di non sapere gestire e controllare l’esterno) dentro questa struttura/ghigliottina che lo ingloba, lo fagocita, lo risucchia, non lo lascia andare come calamita, lo tiene ingolfato, impantanato, infangato, attaccato a sé come pesce in un acquario senza possibilità di fuga. C’è un malato psichiatrico, in una sorta di remake di Frankenstein, con camicia di forza, chi usa i siti di incontri, chi fa acquisti ossessivamente su Amazon (fashion victim) per comperare cose che evidentemente non gli servono, oggetti per riempire l’essere, comprare il superfluo del quale non abbiamo bisogno che ci renderà, dopo un primo momento di allegria, ancora più tristi e infelici.

 

 

Compriamo il frivolo per colmare le nostre vite altrettanto frivole. Il capitalismo sostiene il narcisismo e l’individualismo, la chiusura e l’isolamento; non c’è più una comunità attorno a noi, manca l’empatia. Ecco un uomo travestito da donna deriso, picchiato, umiliato. Siamo ombre, false felicità bidimensionali di cartone, case da film del Far West, solo di facciata e dietro il niente. Chi è dentro la gabbia (il nostro Primo Mondo) e vuole uscirne senza sapere dove andare, senza alternative, chi ne è fuori ed è escluso (i migranti con il miraggio dell’Europa) che vorrebbe entrarci in un gioco d’osmosi che lascia insoddisfatti tutti. I Monologhi della Solitudine sono un fresco tentativo innovativo, movimentato, che offre tanti slanci e motivi di pensiero e considerazioni su noi stessi, sul nostro tempo, sul nostro essere, e restare, umani dentro questa friggitrice chiamata società moderna, dentro questo frullatore chiamato consumismo, dentro questa lavatrice chiamato benessere.

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera (Salvatore Quasimodo)

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.