NurArcheoFestival: tra i nuraghe ecco Lorenza Zambon e Mario Perrotta

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Sono 7.000 i nuraghe sparsi in tutta la Sardegna, costruzioni di una civiltà ancora misteriosa che dal 1700 a.C. al 900 a.C. ci ha lasciato queste strutture di pietra, pochi oggetti (forse trafugati dai tombaroli) e nessuna forma di scrittura.

Anche il nome nuraghe è arrivato a noi in una trascrizione in latino, in una delle tante dominazioni che si sono succedute sull’isola al centro del Mediterraneo.

Fenici, appunto i Romani.

Una società che non ha avuto guerre civili interne di campanilismo tra le varie tribù e che non si è assoggettata né è stata conquistata da altri popoli ma che, nel tempo, si è mischiata soprattutto grazie ai commerci e agli scambi culturali. Un popolo che ha avuto il suo culmine di sviluppo nell’Età del Bronzo, che poteva contare sui giacimenti e le miniere di ossidiana e che navigava soltanto nelle ore diurne, sotto costa e soltanto in primavera e in estate.

I nuraghe erano strutture autoportanti e potevano essere alte fino a 25 metri. In questa parte di Sardegna, tra l’Ogliastra e la Barbagia, una via per arrivare dal mare fin nell’interno già attiva al tempo dei nuragici e utilizzata dai pastori per la transumanza delle bestie, il maestrale picchia forte e la catena del Gennargentu (il punto più alto è oltre i 1800 metri) è talmente vicino che quasi si può toccare. Siamo tra Arbatax e Nuoro, circondati da verdi boschi rigogliosi di lecci, querce e ginestre, vacche ciondolanti e caracollanti e il tipico suono delle campanelle di capre e pecore che diventa litania e rumore di sottofondo che, come acufene, ti entra nel timpano.

Terra selvaggia e impervia, terra di nuraghe, terra di Tacchi (pinnacoli montuosi che svettano nel panorama) ma anche terra di centenari con una folta schiera di anziani che appunto, per il cibo, la vita all’aria aperta, le usanze, la mancanza di industrie che storicamente abbiano inquinato acqua e territorio, arrivano tranquillamente oltre la terza cifra d’età (a questo proposito consiglio la lettura de I saggi raccontano, volume a cura di Gisella Rubiu, edito da Taphros).

Terra di cortecce ruvide e arbusti di spine, terra di culurgiones e malloredduspane pistoccu e porceddu, terra ispida, irta, rude, appuntita, terra di eja e terra di ajò. Ed è a queste latitudini che è nato, su impulso della direttrice artistica Rita Atzeri e della sua compagnia Il Crogiuolo, il NurArcheoFestival giunto alla quindicesima edizione che da qualche anno vede alla codirezione l’attrice partenopea Iaia Forte.

Vedere teatro, godere della danza, ascoltare letture sceniche immersi tra queste pietre millenarie è un surplus che ristora, un lusso, una fortuna poter guardare il contemporaneo che si muove con alle spalle questo scenario naturale che ci fa respirare la Storia con la maiuscola.

Il festival (dal 17 al 31 luglio) è andato in scena tra i siti archeologici di S’Ortali ‘e Su Monti, nell’ex Blocchiera Falchi Tortolì, a Porto Frailis ad Arbatax e a Villagrande Strisaili tra Sa Carcaredda, dove è presente una tomba di giganti (sepolture collettive, senza corredo funebre, senza distinzioni di casta o ceto con un lungo corridoio e una parte semicircolare all’esterno), e quello del santuario di S’arcu ‘e is Forros, un grande villaggio con templi, fornaci e capanne che si affacciavano su piazze di mercato e botteghe, siti gestiti e curati con professionalità e grande amore dall’associazione Archeonova con i loro guardiani, custodi e guide appassionate.

Al netto delle letture con il leggio, che non ci scaldano mai troppo, di grandi interpreti come Maria Paiato con Le due zitelle di Tommaso LandolfiAnna Bonaiuto alle prese con la trilogia di Elena Ferrante, e della coppia Tommaso Ragno e la stessa Iaia Forte in un dialogo tra Truman Capote e Marylin Monroe, abbiamo preferito concentrarci su due spettacoli che, per motivi diversi, ci hanno fatto sobbalzare sulla sedia, il primo per la semplicità e la naturalezza rivoluzionaria dell’argomento, Storie selvatiche di Lorenza Zambon, il secondo per la scrittura e la messinscena di uno dei più grandi monologhisti che abbiamo, Mario Perrotta con Come una specie di vertigine.

 

 

La Zambon ci porta in un mondo green dove l’ambiente e il bosco non sono soltanto contorno o fondale ma il vero e proprio protagonista centrale. Ascoltandola non si ha mai la sensazione della maestra che vuole dettarci i segreti del vivere sano a contatto con la terra ma ci arriva la freschezza, la pulizia, di chi crede in certi valori e, senza arroganza né presunzione, vuole passarli, metterli in condivisione, creare una comunità. Nascono così queste tre Storie selvatiche (prod. La Casa degli Alfieri), con i capitoli Il giardino nascosto di Nonna PupaIl Lago che combatte e Rito, che ci portano a spasso per l’Italia: la prima vicenda narrata è legata a Como, la seconda a Roma, la terza al Monferrato. E’ un giro d’Italia che ci spiega i benefici che la natura, e il prendersene cura, può avere sull’uomo, sul suo umore, sulla sua fiducia nell’altro, sul benessere interiore, sulla sua salute fisica e mentale. Sembrano storie magiche, alchemiche, quando di innaturale c’è soltanto il nostro stile di vita che ha allontanato il contatto con alberi e animali per rifugiarsi tra cemento, plastica, asfalto e smog credendo che fosse più facile, migliore, asetticamente più comodo il sistema di vita industriale e cittadino rinnegando tutta una grande fetta del nostro carattere, spirito e animo che quotidianamente soffre. La pasionaria Zambon (ci ha ricordato le narrazioni del Teatro delle Ariette per temi e modalità) ci parla di fragilità, nostre e della Natura, e che la sinergia dell’uomo con l’ambiente che lo circonda può farlo tornare a sorridere, ci racconta di giardini creati dal nulla ripulendo una discarica con forza di volontà, passione, abnegazione, tempo, il tutto non per puro gioco edonistico o peggio egoistico ma per donarlo e regalarlo alla comunità, al quartiere, a chiunque passandoci gli venga a sua volta voglia di curarsene o di fare altrettanto con un altro pezzo di terra abbandonato e vilipeso dagli uomini che spesso utilizzano il verde pubblico come una discarica non pensando che le conseguenze ricadranno anche sulle loro vite. Bisogna tornare a capire che il pubblico, proprio perché non è di nessuno, è di tutti e tutti dobbiamo contribuire a rispettarlo e farlo rispettare perché dal benessere del verde circostante deriva e dipende anche il nostro. Basta non essere miopi ed essere al contrario minimamente lungimiranti. E prendersi cura di un pezzo di terra è prendersi cura degli altri, dell’aria, delle endorfine che il verde può rilasciare nelle persone che lo abitano, lo vivono o anche marginalmente lo attraversano. Anche il lavoro, la fatica, il sudore nel districare la terra e le piante dà soddisfazione quando i semi germogliano, le foglie spuntano, i rami fioriscono. La Natura è un toccasana, riequilibra le energie negative e relativizza i piccoli grandi problemi dell’uomo contemporaneo. Allevare il suolo è alleviare le nostre paure e sofferenze. Si sente che è un argomento che sta a cuore alla narratrice che riesce a trasmettercelo fino a farci commuovere e sembra strano che ci scendano le lacrime per radici e tronchi, per arbusti e germogli, per rampicanti e chiome floride. La sua non è una visione bucolica fine a se stessa ma un piccolo germe di speranza in mezzo a tutto il nichilismo, il menefreghismo e la negligenza dei nostri tempi amari. Il verde ci dice anche che, sembra banale affermarlo ma è così, l’unione fa la forza e compatta e ci fa sentire meno soli, più aperti verso l’altro, più disposti a sacrificarci per un bene comune. Il verde che riesce a curare le malattie, soprattutto quelle dell’anima, perché è rispetto, è risveglio, è respiro, è vita, è ricaricarsi, è consolazione, è abbraccio, è intimità. Ed eccoci nella storia del lago di Roma sorto vicino alla stazione Termini, grande pozza naturale nata quasi per protesta e rivoluzione contro un palazzinaro che lì voleva costruire un centro commerciale mettendo le basi per un ecomostro. E, come spesso accade, da una bruttura può nascere bellezza, dai lavori abusivi nasce un habitat perfetto in simbiosi tra natura e animali che cominciano a popolarlo spontaneamente. Il laghetto si popola autonomamente di canne e rane e uccelli e ricci e cormorani che attirano naturalisti e ricercatori. E questo stagno diventa motivo di lotta tra il capitalismo sfrenato alla ricerca dello sfruttamento e della distruzione contro gli abitanti del quartiere che in quello specchio d’acqua naturale ci vedono quella pulizia e quella bellezza che il quartiere non aveva e che invece necessitava per il bene di tutti. E insieme agli animali a popolare la zona arrivano artisti e poeti e ragazzi che scendono in piazza per difendere quell’esperienza, quel presidio di luce in mezzo a tanto abuso e cemento. Quel lago diventa simbolo, ed è di tutti, e resiste e combatte ed è pubblico e scatena vicinanza e solidarietà, amicizia e movimenti volontari di cittadini e abitanti, quel lago è una grande madre che con il suo silenzio ha portato gioia e ossigeno ad un pezzo di Roma assetato e assediato dai palazzi e dal traffico che ogni giorno la incattiviscono. Da un giardino passando per un lago per finire dentro il fuoco, un rito familiare, intimo e casalingo che nasce genuino e istintivo e poi cresce e si accresce di significati finché non sembra essersi esaurito fino a ringiovanirsi, rivitalizzarsi e rinsaldare nuovamente nuclei familiari allargati tra lutti, crescita dei figli, litigi, la pandemia, la vecchiaia per alcuni e il passaggio del testimone ai nuovi arrivati nel più sereno e completo circolo della vita. Il fuoco purificatore che scaccia i fantasmi del passato, il fuoco che cattura, che si evolve e cambia come cambiano le persone attorno a questo grande centro catalizzatore, sempre uguale e sempre diverso, il fuoco magnetico che ci fa bene, il fuoco che ci fa voler bene.

 

 

All’inizio il monologo di Mario Perrotta (dopo alcuni spettacoli d’ensemble è tornato magistrale solitario al posto di comando) si chiamava (S)Calvino poi cambiato nel ben più d’impatto Come una specie di vertigine (prod. PermarERT Teatro Nazionale) e prende le mosse da La giornata di uno scrutatore appunto di Italo Calvino del quale quest’anno si festeggiano i cento anni dalla nascita. Il narratore leccese prende un personaggio del romanzo (scritto dal ’53 al ’63, altre ricorrenze, nato da vicissitudini autobiografiche) che è ricoverato al Cottolengo, ospedale psichiatrico che raccoglie minorati mentali e fisici. Perrotta (che somiglia sempre più a Ben Affleck) ha sistemato la sua impalcatura meccanica proprio davanti ad un albero di ginepro di 400 anni sorto con le radici dentro un tempio nuragico che ancora mostra la canaletta di scolo per far defluire l’acqua usata all’interno della sala per le funzioni religiose. E’ uno scranno metallico, un telaio, una sorta di vecchia sedia da barbiere, quasi una macchina anni ’60 con i fari sotto ad accecare il pubblico. Se ne sta lì sopra come aquila nel suo nido, con giacca di paillettes da dj, capitano di una nave o marconista sulla sua torre le lunghe dita celesti nell’aria o marinaio dentro la coffa ad urlare Terra con tutta la gola. In quest’ora, intervallata dalla struggente Il mondo di Jimmy Fontana, Perrotta diventa i pensieri di un corpo deforme ma soprattutto immobile, si fa parola per chi parola non ce l’ha mai avuta e dà spazio ai suoi pensieri, terreni, semplici, vivi, carnali, sul suo piccolo mondo sempre uguale, che purtroppo non gira mai, sulle suore che lo accudiscono, sull’amore che vorrebbe ricambiato, sui suoi compagni di sventura. E’ un pezzo che strappa la pelle, uno scritto di rara sensibilità che ci fa sentire piccoli e stupidi nella fortuna che ogni giorno diamo per scontata nelle nostre lamentele e falsi problemi. Un nano bloccato fisso a letto a bocca aperta riesce a scuoterci con le sue parole di impotenza ma ugualmente di ottimismo, lo sforzo, i patimenti, la disabilità nella lucidità, l’impossibilità, l’impotenza. Io non sono libero dice, oppure Volere è potere per me non vale. Sono tutti schiaffi alle nostre piccole grandi depressioni, alle nostre ansie, alle nostre divagazioni sul tema per perdere o ingannare il tempo. E’ inchiodato al letto come lo è Perrotta a questa struttura, che lo contiene come ammiraglio alla plancia di comando dell’USS Enterprise di Star Trek, come Achab alla ricerca di se stesso e sentiamo sulla nostra pelle i chiodi nella carne della crocifissione, l’empatia che riesce a trasmettere, tormento idilliaco, in forma esaltante quando rappa di un turbinare di elenchi di parole (sembra un testo di Jovanotti) che è guerriglia ed enfasi, che è sturm und drang e sullucchero holdeniano, che è Paradiso e benedizione lancinante, flusso che ci soverchia e annega di un sorriso che ci scuote. Perrotta non ha mai smesso di raccontare gli ultimi, i marginali, i periferici. E’ un festa della parola e della scrittura, un urlo contro Dio, una bestemmia celestiale di questi esseri umani puri mummificati dentro corpi di sasso. Come una specie di vertigine ci regala spaesamento, un capogiro di sentimenti contrastanti, uno smarrimento, persi tra la bellezza dell’ascolto e la crudezza del significato, lasciandoci alla fine naufraghi impazienti e intontiti in quest’ultimo fermo immagine di un Perrotta caravaggesco ora testa di Oloferne, adesso testa di Medusa Ragazzo morso da un ramarro. Non può lasciare indifferenti, ti prende, ti shakera, ti mette sottosopra, ti capovolge, ti agita, ti rivoluziona, ti colpisce in pieno, ti turba, ti disorienta, ti confonde, ti sconvolge.

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.