La conquista dell’inutile: su Gli alberi celesti di Tra un atto e l’altro

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ph Mauro Bastelli

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Che cosa fa, la nuova tappa dell’ormai decennale impresa donchisciottesca che un manipolo di attrici e attori di gran scuola ha presentato pochi giorni fa dentro e fuori Villa Salina Malpighi a Castel Maggiore, a pochi chilometri da Bologna?

Su cosa agisce?

Qual è l’opera dell’arte, in questo preciso caso?

Stiam parlando di Maurizio Cardillo, Fabrizio Croci, Oscar De Summa, Angela Malfitano, Marco Manchisi, Francesca Mazza e Gino Paccagnella: per chi ama il teatro, non han bisogno di presentazioni, né tanto meno la validazione di queste poche righe.

Men che meno ne ha bisogno il materiale testuale di partenza: L’amore prima di noi di Paola Mastrocola (vincitrice del Premio Calvino, del Premio Selezione Campiello e nella cinquina del Premio Strega).

L’autrice fa rivivere alcuni Miti antichi, che alcune donne e alcuni uomini di teatro trattano con la tecnica e la sapienza che è loro propria.

Apollo e Cassandra, Medea, Orfeo ed Euridice, Narciso ed Eco, Eos e Pasifae sono le figure che questa creazione riporta alla presenza.

Presenza: qui sta il nocciolo della questione.

Dal punto di vista delle politiche culturali di e in un territorio: esserci.

Dal punto di vista resistenziale: esserci.

Dal punto di vista di umani che si incontrano in un qui e ora rituale e laico (ma su questo torneremo fra qualche riga): esserci.

Dal punto di vista filosofico: come non pensare alle parole di Jean-Luc Nancy?

“Ciò che gli artisti sanno bene, è che non può darsi presenza senza rappresentazione”.

Ancora lui (da una intervista a cura di Maria Eugenia Garcia Sottile ed Enrico Pitozzi, in Culture Teatrali 21, Annuario 2011):

“Il teatro è fondato sulla presenza: l’attore non imita il personaggio, mette in scena qualcosa. Sulla scena, per esempio, una determinata qualità della presenza si mette in scena e si presenta allo spettatore. Quest’ultimo, piuttosto che percepire solamente il corpo che gli si pone davanti – la mera esposizione di un corpo in carne ed ossa –, percepisce l’intensificazione di questa presenza, la sua propria eccezionalità che si manifesta, che accade. Dunque posso dire che il corpo, il corpo stesso, è esso stesso una scena di teatro”.

 

ph Eugenio Carretti

 

Eccoci al punto.

Non staremo a scrivere che gli attori e le attrici son stati bravi, a tratti bravissimi, che Villa Salina Malpighi dentro e fuori è incantevole, che la serata lì trascorsa è stata oltremodo piacevole.

Non lo scriveremo perché bravi, bravissimi, incantevole e piacevole, così come tutti gli aggettivi, dicon più del soggetto parlante che dell’oggetto di cui si parla.

Hanno a che fare col giudizio personale.

E il giudizio personale, si sa, poco ha a che fare con l’analisi.

Ce lo ricordava anche Arthur Schopehauer nei suoi Parerga e paralipomena, già a metà Ottocento: “Ogni uomo considera i limiti della propria visione personale come i limiti del mondo”.

Eccoci dunque, spinti dalla condizione esperita a Villa Salina Malpighi, in grazia del dispositivo che Tra un atto e l’altro ha pervicacemente fatto esistere, a domandarci cosa il sistema di segni che è stato offerto alla nostra ricezione abbia messo in movimento.

Come tutta quella perizia sia divenuta per noi esperienza estetica, dunque etimologicamente conoscitiva.

Da molte prospettive si potrebbe guardare alla questione.

Eccone una: Gli alberi celesti. Il mondo incantato nel disincanto del nostro mondo, questo il titolo dell’accadimento performativo di cui siam stati testimoni, ci ha riportati immediatamente e vertiginosamente all’indicibile, che è sempre l’essenza del fatto teatrale.

La scena, si sa, è luogo di paradossi: l’opera si consuma nel suo accadere e ogni fatto altro (un video, una foto, un racconto o parole come quelle che stiam scrivendo in questo momento) non è l’opera, ma solamente una sua documentazione, un commento, una decorazione.

Quando va bene son fedeli all’originale, questi discorsi, nella forma e/o nell’élan vital che ha fatto fiorire le creazioni.

Quando va molto bene (ed è il nostro timido tentativo, ogni volta che ci apprestiamo a questa forma di volontariato culturale, rubando tempo al tempo che non basta mai) son barlumi di nuovi discorsi e atti di pensiero, nati a partire dai discorsi e dagli atti di pensiero che le opere ontologicamente contengono.

 

ph Mauro Bastelli

 

E quindi?

Quindi -e la serata bolognese ce lo ha ricordato con un guizzo evidente- l’arte del teatro ha strettamente a che fare con quella che Werner Herzog chiamò nel diario di lavorazione del suo celebre Fitzcarraldo -la cui creazione com’è noto fu funestata da una enorme mole di difficoltà, finanche di tragedie- La conquista dell’inutile.

Distante da qualsiasi minimamente assennata logica economica, cosa muove, in noi e insieme a noi, il progetto bolognese guidato da Angela Malfitano e Francesca Mazza, questa avventura estetica che nasce, vive e subito scompare per riapparire fra un anno in tutt’altra forma per poi di nuovo dileguarsi?

L’architettura di un paradosso, si potrebbe forse sintetizzare.

Anni e anni di cesello artigianale, per essere pronti.

Per farsi veicolo di parole e vite altre che acquistan forza e presenza attraverso precise quanto impalpabili geometrie: dei corpi nello spazio e interne agli stessi corpi-teatro (Nancy, ancora) di ciascuna attrice e di ciascun attore, dei corpi luminosi e di quelli sonori, di quelli vegetali e di quelli inorganici.

Un lavoro smisurato, spesso appartato e ingrato, per affinare la consistenza, lo spessore di un qui e ora che istantaneamente svanisce, se non nel ricordo di chi c’era.

La presenza scenica delle attrici e degli attori de Gli alberi celesti ci interroga sulla nostra attitudine ad esser presenti, come spettatrici e spettatori, donne e uomini lì in primis come corpi riceventi, a dar legittimità al fatto / patto teatrale: qualcosa di massimamente ineffabile e al contempo regolato (anche) da leggi concretissime che in molti non smettiamo di chiamare, e considerare, un rito.

Un accadimento, dunque, che ci dovrebbe almeno un po’ trasformare.

Eccoci allora che le giacche e i cappelli che con malinconica allegria han dato vita al Cabaret dell’Ade, l’affacciarsi sul mistero della vocalità -tra organicità e tecnologia-, la millimetrica coreografia di apparizioni e scomparse di umanissimi fantasmi innamorati, l’ironia (dunque sghignazzo e al contempo, socraticamente, distanza) al cubo del rappresentarsi di fronte a rappresentazioni di altre proprie rappresentazioni, il rapporto materico e carnale, creativo e creaturale con alcuni elementi (acqua, luce, aria, pietra) e, ancora, il riportarci alla dimensione rituale, dunque trasformativa, del nostro condividere significanti e (forse) significati, del nostro insensato gettarci a costituire una temporanea comunità d’attenti… tutta questa messe di sapienza e tempo, dunque di vite, per ricondurci istantaneamente a un presente fragile e fragoroso.

A render più esigente di vita la vita di ciascuno.

Di questo, a voce alta, dobbiamo ringraziare.

 

ph Mauro Bastelli

 

“Quel che importa è andare fino in fondo a ciò che si può fare, attingere una coerenza senza falle, far affiorare le questioni più nascoste, le più informulabili, per estrarne un mondo coeso.

E siccome ciò che io cerco esiste appena, siccome l’essenziale è un quasi-niente, un non-so-che, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare l’impalpabile – qualcosa di cui si può intravedere l’apparizione, ma non verificarla, poiché svanisce nell’istante stesso in cui appare, poiché la prima volta è anche l’ultima”.

[ Vladimir Jankélévitch, Da qualche parte nell’incompiuto, Torino, Einaudi, 2012 ]

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