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In una Sardegna lontana dalla mondanità delle spiagge bianche e dalle acque cristalline, dai vip e dagli yacht, il Festival dei Tacchi (4-9 agosto) sta sospeso da ventiquattro anni tra Jerzu, la patria del Cannonau, il vino scuro e di carattere corposo, e Ulàssai, paese inerpicato della grotta di Su Marmuri ma soprattutto dove è nata l’artista Maria Lai (dieci anni dalla scomparsa) con i suoi fili della memoria.
Il rosso del succo d’uva e i lacci che legano territori, persone, mani, sguardi. L’Ogliastra è terra vergine, incontaminata, verde che qualche piromane delinquente e criminale anche nei giorni del festival ha tentato di danneggiare con il grande incendio che si è sviluppato sopra la collina di Gairo proprio davanti alla Cantina Antichi Poderi (400 soci) di Jerzu, di silos d’acciaio scenografici e scale elicoidali, dove un maestrale impertinente e glaciale ha sferzato sedie e pubblico infreddolito di piumini facendo rimpiangere l’afa agostana.
La rassegna, organizzata dai gruppi Ogliastra Teatro e Cada Die Teatro, che ha sede nel quartiere Pirri, periferia di Cagliari, nel bellissimo spazio della Vetreria, è diretta con piglio e allegria da Giancarlo Biffi, uno che ha fatto lo stesso percorso, dal continente all’isola, di De Andrè o Gigi Riva o anche del compianto regista genovese Francesco Origo: ha ancora l’accento lombardo ma dall’82 è venuto in Sardegna e se n’è innamorato e qua è rimasto fondando la sua compagnia. Scelte di vita importanti che denotano come questi luoghi possono entrarti sottopelle.
E’ stato il festival dei narratori e delle grandi storie, i padri sviscerati da Mario Perrotta, l’Olocausto armeno di Stefano Panzeri, veleni e mariti di Maria Paiato, la storia ebraica di Roberto Anglisani, lo scudetto del Cagliari di Alessandro Lay, Leonardo e Michelangelo raccontati da Roberto Mercadini, lo Shakespeare di Andrea Pennacchi. Parole da ascoltare, parole da ricordare, parole da incorniciare, parole di fuoco, parole da piangere, parole per ridere, parole emozionanti.
Mario Perrotta, nel primo appuntamento, In nome del padre, della sua trilogia che gli è valsa un nuovo e prestigioso Premio Ubu, ci porta dentro tre psicologie diverse dell’essere padri. Coadiuvato alla scrittura da Massimo Recalcati, in scena il padre veneto, operaio che non ha potuto studiare, il napoletano arricchito diviso tra aperitivi e discoteca, il professore siciliano forbito. Tutti e tre non sanno come affrontare la crescita e l’adolescenza dei figli ma soltanto quello che sembra avere meno possibilità, non avendo i soldi del secondo né la cultura del terzo, si mette in discussione e con l’aiuto di uno psicologo riesce ad entrare nel mondo del figlio, ad aprire un dialogo, una piccola breccia, a prendere un po’ di fiducia. Perrotta, che da poco abbiamo visto nel suo spettacolo miracoloso dedicato a Italo Calvino al Nurarcheo Festival di Villagrande sempre in Sardegna, anche in questo lavoro, che vedemmo nel ’19 al Piccolo di Milano, riesce a catalizzare l’attenzione sul testo come sull’interpretazione, sulle dinamiche drammaturgiche come sulla sua fisicità in un connubio perfetto dove le parole scorrono, felici e ferenti, colpendo la platea per ferocia e commozione.
Pur conoscendo la storia e l’epopea dolorosa e sanguinosa del popolo armeno, schiacciato da Curdi e Turchi, siamo rimasti scioccati e annichiliti dal racconto Garò di Stefano Panzeri che è riuscito a tenere la barra, come novello Achab, mentre il vento infuriava a novanta all’ora e dietro di lui, in lontananza il fuoco cominciava a rosseggiare la vallata. Una storia antica, arcaica che Panzeri in nero, giustamente luttuoso, ci ha riportato come una fiaba catartica, carica di dolore ma anche di pace, di pene e sofferenze indicibili e inimmaginabili, una storia però da continuare a raccontare, soprattutto nelle scuole, perché un milione e mezzo di morti ancora aspettano giustizia e scuse, una strage degli innocenti ancora misconosciuta e taciuta dal governo di Erdogan. Una storia di diaspora senza salvezza, di torture e stupri, un genocidio in piena regola accertato e conclamato che qualcuno vuole mettere sotto il tappeto, nascondere senza prendersi responsabilità né paternità dell’accaduto. Panzeri ci porta dritto al centro del vortice del dolore, ce lo fa sentire sulla pelle, dentro le viscere, sotto lo sterno dicendoci che certe cose, queste cose, accadono tutt’oggi, che sia in Cecenia o Ucraina, Sud America o in Libia o in Siria, che l’indignazione da tastiera non basta, che dobbiamo rimanere con le antenne dritte, che non dobbiamo vivere nel menefreghismo, nel purtroppo senza alzare un dito, senza far sentire la nostra voce per chi voce non ce l’ha più oppure non ce l’ha mai avuta: un lavoro di teatro civile necessario come pochi altri.
Racconto biblico che mette le sue radici ai confini del Tempo è anche Giobbe, dal volume di Joseph Roth per l’adattamento e la regia di Francesco Niccolini, con il scena un altro campione di narratore: Roberto Anglisani. Una famiglia di russi ebrei messa a dura prova da Dio ma che ci insegna anche che il libero arbitrio dell’uomo ha una componente fondamentale nelle nostre scelte di tutti i giorni e che la fede in qualcosa di supremo è anche una deresponsabilizzazione delle nostre decisioni attendendo sempre il miracolo risolutivo e riparatore. Storie di fughe e ritorni, di malattie e guerre, di tentativi di scappare alla sorte e di questo Dio sempre presente che guarda gli uomini sbagliare, pregare e sperare. Anglisani, un bonario Anthony Hopkins, ci conduce dentro le credenze, la fortuna e la sfortuna, il karma, le superstizioni, la Bibbia, le maledizioni e le nostre opzioni errate che ricadono inevitabilmente su coloro ai quali vogliamo bene e che a volte le decisioni migliori sono quelle del cuore e non quelle razionali.
Avevamo già visto Alberi Maestri, una performance condivisa con cuffie nel bosco, dentro la foresta che costeggia Campsirago in Brianza dove è nata, è stata ideata e agita. Michele Losi e Chiara Bianchi hanno accompagnato silenziosi in fila indiana gruppi da dieci partecipanti per immergerci in questa natura, totalmente diversa da quella dell’alta Lombardia, ma nella sua diversità suggestiva e magica, assolata e secca. Guide che ci conducono, noi anime da Purgatorio, dentro una piccola rivoluzione e purificazione, lasciandoci alle spalle i rumori della città e i pensieri del contemporaneo, in un rito piccolo, leggero, silenzioso che arriva nelle profondità a toccare zone remote. Ascoltare della vita degli alberi, esseri viventi di centinaia di anni, le loro relazioni e alleanze, il loro rigenerarsi, il loro adattarsi ci fa sentire così piccoli e stupidi quando pensiamo di essere l’unica razza pensante del pianeta, di poterne disporre come meglio vogliamo, di schiacciare ogni altra forma di vita per i nostri desideri, necessità, capricci. Illuminante è la dicotomia tra il nostro camminare e le loro radici, mani sotterranee che non stanno fisse e immobili ma parlano, vagano, cercano, si fanno carezze, si passano informazioni. E queste non sono elucubrazioni filosofiche-poetiche ma biologiche. Ogni passo è un battito del cuore tra cicaleggi, foglie mosse dal vento e quelle secche calpestate e scrocchianti, i fruscii e i sibili, gli scalpicii e il rosmarino, gli svolazzii d’insetti e i crepitii. Nella foresta ognuno fa il suo bene procurando benefici anche agli altri esseri del bosco. Dovremmo soltanto ascoltare e imparare umilmente. Il bosco come un grande cervello, un corpo unico in equilibrio sottile. Camminiamo nella terra arsa e brulla in un sentiero tra felci e cardi spinosi, di muschi e mosche, di massi squadrati pesanti, rampicanti e zolle aride, rovi e cortecce, cinguettii e aghi di pino e funghi buoni da mangiare, buoni da seccare, da farci il sugo quando viene Natale. Le radici (che bellissima parola!) tengono la terra e sorreggono la Terra, gli alberi sono la Storia del mondo, noi siamo soltanto formiche, prima lo capiremo meglio potremo vivere la nostra esistenza infinitesimale senza danneggiare o distruggere tutto, come conquistatori che spargono il sale, al nostro passaggio.
I Cada Die Teatro sono un gruppo storicamente impegnato sul versante del teatro ragazzi. Atlantide è la nuova produzione insieme al Teatro La Baracca Testoni di Bologna che ci accompagna dentro un mondo sospeso tra il nostro habitat concreto e quello dei sogni liquidi, delle dissolvenze marine, del fluttuare amniotico. In un deposito (come fossero anch’essi due pacchi abbandonati) si incontrano due scontenti, infelici della propria condizione e occupazione, vessati dal capo e da ordini in burocratese kafkiano, relegati, chiusi nei bassifondi, ridotti a numeri che devono produrre e non più persone con una loro identità e dignità. L’impiegato in completo rosso si incontra con la tuta blu (rossoblù calcisticamente è il Cagliari come il Bologna), si dicono: Voglio toccare il fondo oppure Io più in basso di così non pensavo di scendere ormai sprofondati nella loro routine senza gioia. La critica al mondo del lavoro odierno è lampante: che tu sia impiegato oppure operaio ci sarà sempre qualcuno sopra di te che come grande burattinaio vorrà fare di te una marionetta, impartendoti ordini come se tu fossi merce da spostare e non persona della quale avere cura. Scatta tra loro due una alchimia, una amicizia, una solidarietà, forse un amore alla Brokeback Mountain e la loro memoria fa riferimento alle vite precedenti, alla vita prima di questa vita: si riconoscono come anime antiche che hanno passato più volte consistenze ed essenze, corpi e materia. Ci sono delle sospensioni di pura poesia e questo pacco che qualcuno continua a spedire ma che ritorna sempre al punto d’origine come a dir loro che devono aprirlo assolutamente per scoprire un’altra parte di se stessi. Qui sono venuti a galla ricordi della pellicola Splash. Una sirena a Manhattan, storie di scelte radicali, di passaggi, non una fuga ma un desiderio onirico, trasognante che evidenzia il valore della perdita non come sconfitta ma come esaltazione della vita vissuta, presa, morsa. E c’è questa porta dorata che tutto riappacifica e calma e placa, una soglia da varcare (forse un suicidio), un imene per tornare per osmosi nell’utero materno, un mondo finalmente di silenzi, di sguardi, di onde, dove essere grati per l’intorno senza cercare di sottomettere nessuno.
Parlavamo della scelta di vita del direttore artistico Biffi e non possiamo non pensare a quella analoga di Gigi Riva sul quale è già stato detto tutto e più. Recentemente è andato in scena un bel parallelismo tra Riva e De Andrè ad opera di Federico Buffa che ne sottolinea i caratteri taciturni, schivi, solitari e questa terra così simile a loro che li ha accolti. In Riva Luigi ’69-’70 Alessandro Lay invece fa uno scarto ulteriore parlando sì del calciatore divenuto mito nell’isola ma creando un ponte tra l’autobiografia del campione e la propria: entrambi hanno perso il padre a cinque anni ed entrambi sono morti sul posto di lavoro, morti bianche che poi bianche perché? E, dopo l’excursus calcistico ma anche storico-sociale di un’Italia che usciva dal dopoguerra e si affacciava a quello che sarebbe stato il boom degli ’80, Lay ci immerge in quegli anni di povertà ma anche di valori saldi, di pastori e sequestri ma anche di orgoglio e fatica. Ci racconta un’Italia, una Sardegna, una Cagliari che non ci sono più fino ad arrivare al nocciolo, al ventre della propria storia personale, il trauma della prima partita allo stadio, il trauma della perdita del genitore e quella ferita che non si rimargina, un ricordo appeso come una cicatrice che continua a pulsare, a far male.
Posso rinunciare a tutto tranne che ai tacchi alti, diceva Donatella Versace.
Un festival irrinunciabile.
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