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Quest’anno, tra gli spettacoli del Santarcangelo Festival, ho percepito la tendenza ricorrente a voler lanciare un messaggio, una denuncia aperta, un “basta!” deciso.
Ho già parlato di quello degli spettacoli Whitewashing e Bow a study.
Ora però vorrei far notare come Lourdes, terzo spettacolo da me visto, sembra muoversi con un intento opposto, sia per caso o per scelta.
Non ho sentito un “basta” o un “non basta”, non ho sentito esplicitare messaggi, critiche, denunce, contraddizioni, o almeno non in modo così netto. Piuttosto che dire, Lourdes sembra voler ascoltare e proporre un ascolto condiviso.
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Quello delle testimonianze raccolte dall’autrice in dieci anni al santuario di Lourdes. Di questo ascolto il pubblico è lasciato libero di fare ciò che vuole.
Una libertà che viene esplicitata anche nell’invito iniziale, rivolto agli spettatori, di sedersi dove preferiscono (ci sono varie sedie sparse per tutto lo spazio scenico e orientate in tutte le direzioni), di spostarsi, di alzarsi per andare in bagno, andare a mangiare o bere qualcosa, disegnare su dei fogli o anche andare via.
Dunque, dopo questo invito, distribuito su un foglio e ripetuto parola per parola all’inizio della performance, inizia l’ascolto..
Siamo dentro ad una biblioteca. Oltre alle sedie sparse la stanza è ingombra di oggetti. Evidenziatori e matite dai colori accesi, fogli, statuette, carrelli con tazze di camomilla e un treppiede e una camera, che cambiano spesso posizione.
Iniziamo ascoltando alcuni spezzoni di intervista (solo audio) fatti ad individui, laici o religiosi, al santuario di Lourdes. Parlano senza che ci sia un vero e proprio filo conduttore. Qualche frase su un fatto specifico che gli è capitato, sul dialogo con un’altra persona, sulla concezione di spiritualità.
A questi spezzoni di discorsi iniziali, registrati, seguono discorsi completi. Vere e proprie interviste di persone comuni.
Ma stavolta non sono registrate, gli danno voce gli attori Emilia Verginelli e Ale Rilletti, inquadrati di volta in volta in punti diversi della stanza dalla telecamera live, che trasmette in tempo reale i loro primi piani su uno schermo.
Queste loro interviste hanno un tono e un linguaggio dimesso, informale, discorsivo, sgrammaticato, ricalcando parola per parola il testo delle interviste.
Che siano uguali parola per parola lo so perché mi è stato dato un piccolo monitor, dove posso leggere il testo.
Non è banale che i discorsi siano recitati esattamente come sono, con le interiezioni, gli errori, le interruzioni del parlato. Testimonia un’esigenza di verità, di raccontare senza filtri e senza la pretesa di un’interpretazione.
Forse perché si parla di un tema, quello spirituale-religioso, dove di interpretazioni ce ne sono e se ne possono dare tante.
Dunque, la non-libertà degli attori, vincolati dal loro rispetto assoluto per il testo dell’intervista, determina la libertà dello spettatore nel fruire dell’intervista così come è stata fatta. Mediante il medium dello spettacolo, del corpo e della voce dell’attore.
Una non-libertà, quella degli attori, che li costringe, ad esempio, a offrire una teglia di biscotti quando un’intervista viene interrotta dalla frase “Volete dei biscotti? Li ho preparati stamattina”.
È il materiale con cui lavorano (il contenuto delle interviste) che dirige le loro azioni (peccato solo che abbiano offerto biscotti che non erano stati fatti in casa).
Tutto questo avviene mentre i piccoli oggetti dello spazio scenico vengono mossi, posizionati, spostati, inquadrati. Ora sono alcuni libri che vengono disposti a terra in cerchio, ora delle madonnine di plastica, attraversate da luci colorate, ora gli evidenziatori sparsi per terra, ora il bollitore che fa sentire il suo borbottio.
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Ci sono anche un bel numero di fogli, che occupano un angolo della stanza. Sono disegni di facce, fatte con gli evidenziatori. Semplici linee colorate disposte secondo le direzioni di occhi, bocca, naso. Proprio come le linee che traccia Emilia Verginelli sul suo stesso viso con alcuni post it. Maschera della maschera che indossa? Disegno del personaggio di cui si è vestita?
Di tutti questi oggetti mi colpiscono i colori. Sono particolarmente accesi e il motivo è una lampada di Wood che irradia luce uv nella stanza, facendo risaltare alcuni pigmenti. Per questo negli scaffali pieni di libri ce ne sono alcuni, pochi, del colore giusto, che reagiscono con la luce uv e sembrano illuminarsi.
Forse come quei pochi, tra i tantissimi che si sono recati a Lourdes, che hanno ricevuto la grazia di un miracolo. O forse questa è solo una suggestione mia.
È bello, però, vedere come un ambiente può interagire con uno spettacolo, aggiungere qualcosa, diventare elemento costitutivo dell’accadimento performativo.
Questo contraddistingue molti spettacoli del festival e, come ha affermato il direttore artistico Tomasz Kireńczuk, rappresenta anche un bel rischio, che tutti, organizzatori e performers, hanno accettato di prendersi.
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Tornando a Lourdes (lo spettacolo e non il luogo), la performance termina con l’invito, allo spettatore che ne abbia voglia o bisogno, ad assistere anche le repliche successive, per sperimentare diverse modalità di ascolto.
Si evidenzia in questo modo una libertà di indagine, di verifica, di interpretazione. Forse resa necessaria dalla grande varietà dei contenuti delle interviste e dalla mancanza di una chiave di lettura rigidamente definita.
Pare, dunque, che non ci sia un messaggio gridato forte e chiaro, esplicito, imposto, ma un lavoro senza tempo di immersione, apertura e ricerca.
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