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Al Santarcangelo Festival 2023 ho assistito a tre spettacoli, che mi sembrano rappresentativi di una tendenza ricorrente in questa edizione. Quella di voler gridare a piena voce un messaggio. L’esempio più calzante, anche letterale, è la performance gridata di Jana Shostak, ma ho notato la stessa tendenza anche in Whitewashing, di Rebecca Chaillon.
Questo secondo spettacolo inizia mentre il pubblico entra in sala.
Lo spazio scenico stavolta è un telone quadrato bianco, con la platea su tre lati. Sul telone bianco cadono alcune gocce scure. Provengono da diversi ghiaccioli neri tenuti sospesi.
Queste gocce vengono continuamente pulite da due donne nere con un carrello delle pulizie, un mocio, uno strofinaccio e un secchio di candeggina.
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Le due sembrano una l’opposto dell’altra.
Una è in piedi, vestita di nero, l’altra a terra, tutta bianca: bianca la pelle verniciata, bianche le labbra tinte, bianchi gli occhi, sotto lenti a contatto senza pupille.
Vanno avanti a pulire per un po’, canticchiando, accanendosi, accaldandosi, ma senza dir niente e senza musica. Pian piano la donna a terra, Rébecca Chaillon, si spoglia di tutti i suoi vestiti e inizia ad usare il suo stesso corpo per pulire il pavimento, cospargendosi di candeggina.
Ecco allora che l’altra, l’attrice Aurore Déon, la fa rialzare e sedere e con ferma dolcezza le lava via dosso il bianco, in silenzio. Poi le toglie la cuffia che copriva i capelli e inizia ad attaccarvi delle extension, che annoda a formare delle trecce lunghissime. In un tempo silenzioso che sembra infinito, quattro trecce vengono formate, collegando la testa di Rebecca a quattro appigli in mezzo alla platea.
La donna seduta lascia fare. Tira fuori una rivista e inizia a leggere a voce alta la pagina degli annunci per single.
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Molti uomini bianchi cercano donne nere come partner occasionali o fisse.
Una donna cerca un uomo sano di mente e patentato.
Alcune donne ucraine cercano un compagno.
Una donna sieropositiva cerca qualcuno nella sua stessa condizione…
Le pagine della stessa rivista vengono appese alle trecce, come panni ad asciugare. Sui fogli ci sono volti e corpi di modelle dalla pelle scura.
A questo punto Aurore Déon apre la voce al canto e intona Try to remember, una canzone nostalgica, dolce, piacevole, ma che richiama significati preoccupanti. La canzone proviene da un musical degli anni sessanta, The Fantasticks, fortemente criticato perchè sembra minimizzare il problema dello stupro, utilizzando in una canzone la parola rape, ma provando ad attribuirle un significato più leggero.
Mentre Rebecca si fuma una sigaretta, Aurore procede con una narrazione in prima persona. Sono i pensieri di una donna nera, convinta (o costretta) ad andare a vivere tra i bianchi dove, soffocata dai giudizi sul suo aspetto e sulla sua natura, è portata a nascondere sé stessa.
Questa donna parla per immagini, ora paragonandosi a un’isola, ora a un fiore, ora a uno specchio rotto. Descrivendosi in termini di linfa, corteccia, radici. Oppure ruggito e criniera.
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Con il linguaggio della poesia traccia un’invettiva, che sembra un flusso di pensieri. E denuncia il whitewashing a cui si sente costretta, il tingersi di bianco, il nascondersi.
Dice di aver assunto “l’aspetto più grezzo” per integrarsi, di essere diventata una “copia oscura”, un “incubo pallido”, un “sole e al tempo stesso parasole” e lamenta la fatica che deve fare per “ingannare la propria essenza”.
Denuncia gli uomini che le si fanno intorno, ipocriti, interessati, giudicanti. Quelli che le dicono che la sua pelle è come il caffè e come il cioccolato, due cose che lei odia. Che le dicono che parla troppo forte, che ha un profumo troppo intenso. Che le dicono “sei così bella che sei brutta”.
Nelle parole c’è la rabbia, vera, palpabile, di chi dice “io sono!”
E mentre le parole si avvicendano, Aurore si cambia e indossa abiti tradizionali, ma di una tradizione sicuramente non europea. Spicca ancora di più nella sua affermazione di identità. Come “un baobab tra i salici piangenti”, sta ritta in mezzo a questo quadrato bianco, circondata da una platea di bianchi e continua, con le parole della poesia a dire “io sono!”.
Così si chiude lo spettacolo, con questo cambio d’abito e con un improvvisa puzza di bruciato e la vista del fumo. È Rebecca che, nel frattempo, con un accendino, ha reciso i quattro cordoni di trecce che la tenevano legata (o relegata).
Un messaggio forte, chiaro, deciso, vero, già udito, forse anche riconosciuto, o forse non abbastanza, not enough. Ma che dice “enough!”, cioè “Basta!”.
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