Di fil tëch a j élbar. Un viaggio tra le Stagioni di Agnese Fabbri, alla ricerca di lucciole

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Agnese Fabbri

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Tornano le poete appénna ammattìte con tanti vuoti a rendere e una sorpresa.

Si parla di poesia. Questa volta la poeta appénna ammattìta è colei che scrive l’articolo, mentre l’autrice raccontata attraverso i suoi versi trasuda leggerezza e lucido equilibrio. Ha una penna d’oro e si chiama Agnese Fabbri di Villanova di Bagnacavallo, insegnante, collaboratrice con case editrici per la letteratura per ragazzi, alla sua prima pubblicazione come poeta.

La mia impresa folle è stata confrontarmi con una silloge bifronte, con testi speculari, ma non sovrapponibili. Da una parte la poesia in dialetto romagnolo, a detta di Giuseppe Bellosi – poeta, glottologo, cultore del dialetto romagnolo e attento alla sua evoluzione – di un dialetto non nativo, ma mentale, assunto con la vita in una famiglia nella quale si parlava il dialetto, che è rimasto dentro, cuore pulsante, pronto a battere, a costruire frasi, a ripetere modi di dire e nello stesso rinnovatore di lingua e di tradizione. (Dalla prefazione a firma dello stesso Bellosi)

Dall’altra parte i testi procedono attraverso il ritmo poetico, dato proprio dall’abile uso della lingua italiana dell’autrice.

Le poesie hanno forza ed energia sia in dialetto sia in italiano. Appurato questo, ho iniziato a camminare attraverso questi sentieri così corposi, pieni di zolle e di piante familiari e sono stata premiata perché mi hanno portata sulla luna.

Il primo consiglio è tenere il libro tra le mani. La silloge è edita da Interno.Libri Edizioni, nella collana Interno Versi, nel 2022. Si intitola Stagioni.

L’ho studiata, pochi giorni dopo essere stata in una grandissima casa di famiglia nella campagna ravennate travolta dall’acqua fangosa dei canali di scolo, vicino a Roncalceci. Non voglio parlare qui di alluvione, ma di questo casolare riemerso nella sua imponenza dal disastro imprevisto, che ci ha colpito, rimanendo meraviglioso, quasi intonso, per il suo intreccio di generazioni, per il suo narrare storie attraverso gli spazi, gli arredi, la qualità dei materiali, ma soprattutto attraverso i pieni e i vuoti, ugualmente abitati e amati. In Stagioni, ho riconosciuta la stessa fattura, la stessa solidità, la stessa architettura di presenze e di assenze.

Perché allora tanta cautela nell’affondare il mio sguardo di lettrice svagata e di critica attenta nei versi di Agnese Fabbri? Perché l’avevo conosciuta altrove, in altre vesti? No di certo, amo le eclettiche. Perché il suo dialetto poetico è troppo arguto? perché il suo italiano fluisce con maestria? No, amo chi scrive e si muove nel mondo con classe. Per molti vige ancora lo stereotipo della scrittrice dialettale di una certa età; più di qualcuno mi ha chiesto la sua età. Agnese Fabbri è giovane. In realtà, non ho mai subito questo stereotipo, anzi per me la scrittura in dialetto profuma di esotico, di scaffali pieni di testi in veneziano, delle letture scolastiche di Porta e Belli. Allora perché tanta ritrosia?

Tramite Agnese Fabbri mi sono interpellata sulla mia relazione con il dialetto o meglio i dialetti, uno nessuno centomila. Mi sono interpellata sulla mia relazione difficile con le lingue. Mi sono poi concentrata su quell’uno – il romagnolo – che mi circonda da una vita, che a tratti mi ha sommersa, che è rimasto a lungo inascoltato e che alla fine mi manca. Con i versi poi di questa poeta, l’ho ricevuto poi nella sua forma più ostica, quella scritta, che mi ha costretta ad una decifrazione, accompagnata da una lettura mentale, nella quale la mia voce incespica, rallenta fino allo spasmo e se emette un suono ha un timbro stonato, e senz’altro diverso rispetto alla voce che legge la mia lingua nativa.

Allora mi sono cercata una lettrice, una native speaker del romagnolo. Non ho più avuto bisogno di sovrapporre i testi e  mi sono spalancati due mondi. Affascinanti, irresistibili, impossibile quindi non parlarne e tanto meno scriverne. Perché? Risponde Agnese Fabbri a p. 27 in Camminare (Caminê)

Finché non mi fanno male le gambe, / finché non ho le ginocchia in fiamme, / fino a lì arriva la mia comprensione. / Dopo si sta zitti o chi riesce parla in dialetto. … (… Dop un sosta zet o chi ch’è bon e’ scor in dialèt …)

Poi mi soccorre di nuovo lei a p. 71, in quelle poesie senza titolo solo in italiano che aprono ogni sezione/Stagione:

Tornando a casa
mi guardo e so sempre
che il tempo del dialetto
non è mai finito …

C’è un tempo del dialetto in poesia? A quanto pare no. Le indagini scoprono una fioritura di poete dialettali, di nuova generazione (Annalisa Teodora, Germana, Borgini, Lidiana Fabbri, Marcella Gasperoni, Laura Turci e ovviamente Agnese Fabbri). Bellosi distingue per chi il dialetto è lingua madre, per chi è mentale. Questo aggettivo descrive bene l’unica lettura che posso concedermi del dialetto, ma soprattutto è il dialetto di Agnese Fabbri, mentale. La stessa autrice, però ne ha fatto una lingua poetica. Il linguista lancia anche un’altra sfida: studiare più a fondo queste voci e capire se esiste una modalità femminile nell’uso del dialetto. Ad Agnese Fabbri ho posto la domanda, che è rimasta sospesa, se non addirittura negata.

Non posso rispondere per le altre, ma da lettrice svagata e critica, questa modalità in Stagioni l’ho riconosciuta tra le pagine, tra le occorrenze, tra le reticenze. Ad ogni epifania di questa modalità si è acceso un click, a forma di lucciola“… i fiori nelle case e le lucciole nelle siepi … I fior int al ca, al lòzal int al siv … Da San Giovanni- Sâ ẓvâñ p. 37)

 

 

Mi sono aggrappata quindi a quello che la silloge mi porgeva. Tra le poesie sono appesi fili, tra le pagine, addirittura tra un verso e un altro. Li ho iniziati a contare, le famose occorrenze che rintraccio nelle letture poetiche e alla fine la sorpresa della sua nota. Il libro di Agnese Fabbri, quindi, oltre ad essere ordinato attraverso le Stagioni, ha un corpus centrale, trasudante fili di ogni genere, e alla fine delle note essenziali, non annunciate, la prima proprio dedicata a loro a p. 87 l’immagine dei fili (I fil) è legata all’atto del cucire, del tessere. E in un’altra nota l’utilizzo de i fil ros di murt (i fili rossi dei morti – p.38 La porta-L’os) specifica il riferimento ad un rito apotropaico a difesa dei neonati, offrendomi un altro click, la tradizione muliebre, profana, sincretico-protettiva.

Ma il filo è anche quello delle Perle-Péral (p. 66) Le ho trovate un giorno al mare./ Quando sono uscita dall’acqua/ le avevo in mano./ Non volevo cadessero nella sabbia, ma non sapevo dove appoggiarle./ Allora, anche se mi faceva male, le ho infilate nell’ombelico./ Dopo un bel po’, non ci pensavo neanche più,/ mi sono accorta di avere al collo, una collana, era fatta di perle./ Erano loro, si tenevano strette al filo della collana (Agli era ló, al s’tenéva streti/ a e fil dla culâna,)…

I filamenti non si esauriscono nei fil, tra le pagine ci sono anche tanti capelli, che  hanno acceso un altro click e mi hanno riportato alla mente altre poete: la mia amata Amelia Rosselli, dalla battuta resa celebre di Monica Vitti “mi fanno male i capelli”, o al La gorgiera mi stinge i capelli, la ingordigia nasconde o i capelli scuri, che inducono ricordi a Laura Pugno, o quelli strappati di Alda Merini. I capelli sciolti (A dasé la mola neanche a i mi d’cavel) di Agnese Fabbri erano così tanti che non riuscivamo a prenderli./ Ci coprirono fino a farci diventare fradici. (I capelli – I caval p. 45); i capelli sono arruffati e sporchi, oppure sono quelli neri della madre; dai capelli escono piante, che più si allungano, più fanno male (Fantéṣum/Fantasmi, p. 55); dai capelli sono uscite le stagioni, leccate e poi mangiate (ṣminghês/ Dimenticarsi,p. 73). Insomma un diluvio di capelli sensoriale panico e antropofago.

Un altro click di lucciola l’ho trovato nelle cose che stanno sospese. In questo libro di terra, si vola tantissimo persino partendo da un divano bianco in mezzo all’erba medica, cito Un Cino/Un Film p. 22):

… Persino ora,
mi chiedo se verresti con me
in giro su un letto, stanotte, nel cielo,
come le astronaute, (coma agli astronaute)
a guardare tutto dall’alto.

Da La Lona/La Luna (p. 43)

Delle volte, in cui non so cosa fare,
vado persino sulla luna. Lassù ci siamo solo noi,
quelli che sono scappati …

E così anche se fa buio alle cinque,/e se fuori c’è l’inverno, a casa mia – scrive l’io lirico, Agnese Fabbri, – ci sono le farfalle a Natale.

… E ora non mi ricordo più/ com’ero prima. So solo che/ la sera, quando torno a casa, riesco a perdermi, vicino al camino,/ con loro intorno. (Parpai/Farfalle p. 81)

A questo punto si capisce che in questa raccolta stagionale si può stare molto bene; si possono indossare capi double face, tagliati su misura con questa infinta leggerezza che sgorga dalla fatica del non arrendersi di fronte alla sfida del dialetto e della poesia, del ricordo, dell’allontanarsi dal sé. Agnese Fabbri racconta del suo lungo lavoro di scrittura e traduzione, di editing e di cura. Ne è la protagonista indiscussa e sa ringraziare chi l’ha portata ad un risultato originale, insegnandole tutto quello che so riguardo allo scrivere in dialetto (p. 91).

Nelle pagine di Fabbri ogni poesia segue la scansione temporale, che parte dalla primavera e arriva all’inverno, ma è libera dal tempo. Ogni poesia è senza tempo. Ogni componimento è imbastito dal filo di una scrittura passata, oppure futura, oppure presente. Una scrittura indifferentemente atemporale? Ad ascoltare bene gli echi letterari, sono certa di sì. Il vocabolario è selezionato – più vivace in dialetto, più contenuto in italiano -, ma raffigura un immaginario che raggiunge alte suggestioni, azzardate, ma congrue: c’è in Agnese Fabbri un intreccio di echi fiabeschi, popolari che si estendono da Ariosto, Calvino, Carrol, Grimm, Morante. Agnese Fabbri tra italiano e romagnolo costruisce un mondo favolistico, che rivendica in parte lei stessa nelle fonti, alle quali equivoche o arbitrarie se ne possono aggiungere tante altre. Sì, perché con Agnese Fabbri, ci si trasforma in alberi:

Al radis/Le radici (p. 57)

… Verso sera mi hanno chiamato per mangiare,
Ma io sono rimasta fuori,
Finché sono diventata un albero.
… i miei rami sono diventati alti, più alti degli altri,
Vedo tutto, tutto il mondo che si può vedere …

E si diventa piccole piccole a volte, ancora più piccole durante la lunga notte di San Giovanni (p. 37), e quando ci sono dei buchi nelle lenzuola/ bisogna metterci subito una toppa, /se no diventano più grandi di me  (Le bughé. Il bucato p. 79). Ci sono braccia lunghe da fare il giro del mondo, (Brazé/Abbracciati p. 77); c’è anche  un vento così forte/ da tenere sollevati gli specchi. (I spec/Gli Specchi p. 79)

Facile dunque perdersi tra le quattro stagioni, che pure esplodono nei loro profumi, splendori, per ricomporsi nell’unica voce narrante, delle morte stagioni di chi è scomparso.

J é tot a cve/ Sono tutti qui (p.79)

Ci sono sere in cui mi sembra di vederli tutti.
Seduti al tavolo, non dicono niente.
… Fuori dal cimitero c’è una gran fretta,
Ma loro non ne hanno, … 

Per completare la citazione della prefazione di Bellosi, quella delle morte stagioni: la voce di Agnese Fabbri stormisce tra le foglie, tra la terra ancestrale ed è viva più che mai. La possiamo solo lasciare fluire E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. G. Leopardi, Infinito

Questa scrittura leggera, si riappropria di una lingua e si fonde, in un clamore luminoso di click di lucciole, con le figure femminili della madre e della nonna; la madre è presenza/assenza, è inverno; la nonna è estate oppure quei mesi senza pace anche per altra poete di maggio e settembre. Il vissuto diventa scenografia, scandisce date, diventa grumo di amore interrotto. La madre si incarna, dialoga e sparisce (… ma ci sono giorni in cui sto guidando e mia madre, senza che me ne accorga, è vicino a me. Cominciamo a parlare del più e del meno. Fuori ci sono l’estate e gli uccelli.  p.79)… La nonna è tradizione (c’è mia nonna, /e la nonna di mia nonna, / e tutte le donne che vanno in chiesa, con il fazzoletto in testa, … p. 27) trasmette lezioni di cura domestica, di sopravvivenza. Quando compaiono le figure maschili, sono tattili e attive, a tratti magiche, ma secondarie: il nonno apre le mani e spuntano le fragole; il nonno tiene la bambina sulle ginocchia, e poi c’è l’anonimo aggiustatore di cose, di fronte, di polsi e di schiena in Masê/Sistemare, capace di mettere talmente tutto in ordine, ch’a n’starei gnânc acsè mel (che non starei nemmeno così male), con il quale poter guardare le stagioni che arrivanoA maggio, la notte, si sente l’odore del gelsomino (D’Maz, la nöt , u s’net l’udir de’ gelsumen p.30-31).

Tradizioni, detti e credenze si affacciano irradiati da una luce nuova, colta ed elegantemente spogliata da ogni orpello. Per concludere: solo una raffinata poeta può in un lavoro di tale leggerezza ritracciare un mondo d’aria e di terra, riflesso sulla luna, guardiana delle stagioni. Solo una profonda conoscitrice di tradizioni popolari e letterature varie per adulti e bambini può costruire un girotondo di umane presenze in assenza, abbracciati ad una fauna viva di elefanti, pantere, gatti, lucciole, lumache, rane, anatre, bruchi, cani, cani che stanno anche in piedi, cicale, serpenti. Tutti qui, nella sua esistenza senza pretese errabonda di donna e di autrice, che

… E più vado lontano, più so dove abito.
Solo quando sono arrivata in fondo
Mi ricordo come si fa a tornare a casa.
… E cun piò ch’a végh luntân,
cun piò ch’a so ‘riva d’co
u m’ven int la ment com ch’us s’fa a andês a ca.

Da E’ sêl / Il sale (p. 25)

Note di lettura: questa silloge è bilingue, in dialetto romagnolo nelle pagine pari e in italiano nelle pagine dispari. Ogni sezione è aperta da una poesia in italiano. Tutte le poesie qui citate riportano i titoli in entrambe le lingue; se sono già state citate solo il numero di pagina. Solo alcuni versi sono riportati sia in italiano, sia in dialetto. Il numero di pagina si riferisce al testo in italiano.

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