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Si è concluso da poco il Corso di Alta Formazione di Societas “Il ritmo drammatico” avviato a febbraio al Teatro Comandini di Cesena, con la direzione di Claudia Castellucci e Chiara Guidi e la partecipazione di Romeo Castellucci e di molti altri insegnanti di rilievo nel panorama artistico internazionale.
I 16 iscritti al corso hanno restituito due esercizi pubblici: Porzioni di fatti silenziosi, realizzato sotto la direzione di Claudia Castellucci e presentato a maggio scorso, e Preparare un fuoco, con la regia di Chiara Guidi, che verrà trasmesso sotto forma di podcast il 7 luglio da Neu Radio e prossimamente anche su Radio 3.
I protagonisti del corso si sono resi disponibili a raccontare la loro esperienza.
Abbiamo dialogato con la classe, composta Nicolò Ayroldi, Ilaria Carugati, Sara Chieppa, Alessandra Cocorullo, Eugeniu Cornitel, Flavio D’Antoni, Alessandro De Giovanni, Riccardo Dell’Era, Beatrice Fedi, Carlo Golinelli, Carlotta Grimaldi, Adele Masciello, Francesca Melluso, Chiara Scaglianti, Marco Tè, Viviana Venga e con la loro docente Chiara Guidi (le cui risposte sono evidenziate nel testo con il corsivo).
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Qual è il tipo di esperienza che avete fatto con questo corso e che cosa avete appreso, anche al di là del metodo e della tecnica?
Spesso, da attori, ci troviamo in una giungla dove l’attenzione è sull’ego, sulla personalità. Qua è stato il contrario. La ricerca che ci è stata mostrata è improntata sul fare gruppo, togliersi da sé stessi, non andare insistentemente dietro alle proprie idee, ma cercare delle altre porte non comuni, non facilmente accessibili. Le porte più strette.
L’approccio interessante è stato seguire una logica di analogia, fare riferimento a elementi naturali per creare un pensiero e svilupparlo. Per quanto riguarda l’aspetto umano ma soprattutto interpretativo.
Scalfire la parola, trovare la forma delle parole, abbiamo iniziato così il corso, definendo che la parola è materia.
Qui dentro abbiamo trovato un modo di stare al mondo, una postura, che si può avere nella ricerca artistica come nella vita quotidiana. Ciò che si impara nella sezione di movimento è collegato a quella della voce. È un modo di esserci, una presenza: Chi sono? Cosa sto facendo? Come sono quando lo faccio?
Io ho riscoperto qui una vita vecchia, una vita di tanto tempo fa.
L’ho percepita in tutto quello che abbiamo imparato e che abbiamo fatto in cinque mesi. Ho sentito come la presenza di radici che vengono da lontano. È una radicalità sotterranea che si sente anche nel non fare niente, nello stare fermi ad aspettare che capiti qualcosa.
Inoltre qui c’è un modo diverso di ascoltare e praticare, di essere aperti a costruire delle cose e poi distruggerle. Questo costruire crollando è una dinamica che abbiamo imparato qua.
Trovarsi in un ambiente coerente è la cosa più grande che a un allievo può capitare. Quando ricevi un insegnamento diventa più semplice adattarlo a tutte le cose che ti riguardano, se lo hai appreso in un ambiente coerente.
In questo luogo, partendo da sé stessi, gli artisti di Societas hanno fatto delle scelte forti anche grazie a questa coerenza, questa integrità. Tu vedi un esempio del genere e non puoi fare a meno di tenerlo presente.
Spesso nell’insegnamento c’è un forte distacco quando c’è rigidità. Qui ci è stato trasmesso, un ritmo diverso, dettato dal rigore che ci hanno dato (e rigore è molto differente da rigidità). Come una richiesta di essere rigorosi nell’aprirsi, nell’ascolto. E come gruppo ci ha dato un ritmo, un tempo diverso.
Il corso è di Ritmo Drammatico: l’intento, Chiara, è stato quello di insegnare a muoversi, a vivere, a lavorare con un ritmo diverso?
Sì, anche se non in maniera così diretta. Ogni cosa che fai ha un suo tempo, una sua invenzione di tempo. Il ritmo drammatico parte dal tempo sì ma contempla anche altre questioni, come la melodia.
Un mondo si crea sull’unità ritmica, sull’uno ritmico, da cui poi ci si sposta e che magari si perde ma resta presente, questa unità di misura sotterranea.
C’è un’unità tra parola, gesto, suono… I sensi agiscono sempre tutti insieme, se no come avrebbe fatto Proust a ripiombare nella memoria con una petite madeleine? Non siamo solo mente, siamo prima di tutto sensazione.
Il teatro è però, prima di tutto, fatto di immagini, che vengono prodotte dall’artista e lette dal pubblico. Questa unità riguarda anche l’immagine?
Il teatro è fatto di immagini, cose che vanno viste. Quali immagini scartare? Quali tenere? Su quali lavorare? È necessario imparare a interrogarsi e questo vale per tutto l’esistente. Tanto più che oggi siamo bombardati di immagini e non le vediamo piu. È un problema della propria relazione con le immagini che scorrono nel mondo, con questa furia delle immagini come la chiama Joan Fontcuberta.
C’è bisogno di interrogare e leggere le immagini, capire cosa nascondono, cosa riescono a dire. Ogni immagine che produci pone una domanda di lettura e se non dice niente è perchè hai lavorato poco o perchè non ne vale la pena.
Ma l’immagine è anche una voce che viene fuori da una bocca.
Parliamo di Preparare un fuoco. È un racconto di Jack London, che avete trasformato in una narrazione sonora, fatta principalmente di voci.
Chiara, come mai la scelta di questo testo?
Me lo hanno regalato per Natale. Ho aperto e ho letto “quest’uomo non aveva immaginazione” e ho detto: questo testo fa per me.
C’è un processo di lavoro sul recupero dell’immaginazione come forma di conoscenza (e qui si va a nozze con Paul Valery).
Oggi l’atteggiamento è questo: quando tu non conosci qualcosa perché perdere tempo a immaginare una risposta? Vai, chiedi e ti informi.
Ma la conoscenza non è chiedere agli altri, è rischiare, anche da soli, per capire se la forma che hai trovato è giusta. Lo capisci di più, lo senti.
Jack London è uno che ritorna fisicamente all’immaginazione, perché va lui stesso, in primis, a fare un’esperienza. Solo se tocchi qualcosa puoi immaginare, non puoi immaginare se hai i dati e basta. London tocca con mano la materia di cui parla, si veste di povertà per stare coi poveri, si reca in questi deserti di ghiaccio di cui narra… È un approccio esperienziale.
Tu puoi immaginare se la tua memoria, che viene da lontano, è aperta al mondo. E l’immagine è sempre aperta, non si chiude mai. L’idea di immagine aperta di Georges Didi-Hubermann è molto bella.
Il racconto parla di un uomo che si trova a camminare a 45 gradi sotto zero e si accorge pian piano che probabilmente non riuscirà a sopravvivere. Che tipo di lavoro è stato fatto su questo testo?
Non ci interessava tanto raccontare il percorso di quest’uomo e come doveva fare per cavarsela, ma il discorso che si riflette sull’arte. Cioè che quest’uomo pensa di fare una cosa e ne accade un’altra, che è anche il processo di ricerca artistico: avere un’intuizione ma non sapere se si riuscirà a sollevarla.
Resta un processo aperto di sollevamento, dove un accento va a ricadere su quello seguente.
Il processo funziona perchè c’è un‘esatta appartenenza alla stessa problematica che ci accomuna. Nessuno di noi, ovviamente, ha fatto esperienza di 45 gradi sotto zero. E non vogliamo solo scimmiottare uno che cammina nel freddo, ma dobbiamo creare una condizione traslata che ci permetta di rendere quell’esperienza universale.
Se no diventa solo lettura, un teatro che si affida solo al testo.
Il grande lavoro dei ragazzi è stato raccordare il passaggio tra le loro voci, una all’altra, timbriche e toni, un passo dopo l’altro. Quindi la condizione del protagonista è stata la condizione del cammino delle loro voci.
Abbiamo usato strumenti più vicini possibile alla musica, abbiamo cercato di far vedere il deserto di ghiaccio con la voce. Anche i suoni, molti, sono stati realizzati dalle voci dei ragazzi, perchè fossero più aperti possibile.
Accanto ad essi ci sono alcune musiche, che però non sono mai predominanti. Il contributo più importante è quello di Ellen Fullman, un’artista che fa musica con dei cavi di metallo, e che, nel nostro caso, esprimono molto bene la rigidità, il freddo, la visione del ghiaccio.
Mi rivolgo a voi allievi: come vi è sembrato il percorso di lavoro che avete compiuto su questo testo?
Il lavoro sui suoni è stato molto importante per capire l’approccio di Chiara.
Ad esempio se, per fare il suono dei passi sulla neve, avessimo preso un rumore campionato di passi ci saremmo fermati subito, non ci sarebbe stata arte.
Invece, come ci è stato insegnato, abbiamo scartato questa prima idea, ne abbiamo cercate altre.
Inserendo un suono didascalico si rischia di dare una lettura unidirezionale, mentre Chiara è omnidirezionale.
Abbiamo imparato a creare delle connessioni di immagini personali date da scelte di suoni più aperti possibile, quindi non specifici.
Tante volte ci siamo detti che bisogna fare esperienza delle cose. Dopotutto come faccio a disegnare un albero se non ho visto davvero l’albero?
La prima impressione, leggendo il testo, è stata: quest’uomo, il protagonista, conosce il freddo, London conosceva il freddo. Io non conosco il freddo.
So che lo sputo si congela a meno 45 gradi, ma non ne ho avuto esperienza. Per questo mi sono resa conto di come avessi bisogno dell’immaginazione.
Questo uomo fa una fatica incredibile per fare la sua camminata.
Noi abbiamo fatto una fatica simile nel lavoro di ricerca. Ogni giorno ci siamo rimessi in discussione, tramite la costruzione e la distruzione abbiamo ripreso sempre da capo il lavoro. Abbiamo imparato una fatica di ricerca per provare a sollevare quel testo.
Grazie. Aspettiamo di ascoltare presto il risultato del lavoro e della fatica che avete compiuto.
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