.
Due piccole premesse.
La prima.
L’ho riscritto tre volte, questo articolo. Buttando via e cominciando da capo. E poi ancora. E ancora. Non è facile prender parola con la dovuta delicatezza e con l’altrettanto doverosa chiarezza attorno a esperienze liminali e ibride che fanno della non univoca possibilità di definizione il punctum e lo studium, per dirla con Roland Barthes, del loro esistere e manifestarsi.
La seconda.
Abbandonando ogni pretesa di esaustività, o anche di semplice oggettività, in queste righe dirò: io. Il posizionamento del soggetto guardante (o, in questo caso, scrivente) è parte integrante della cosa guardata, si sa. Accordandomi a una delle linee tematiche e programmatiche di questo FUORI! ho deciso di abbandonare il noi o la forma impersonale: per rispetto e tentativo di sintonia con i tanti ii, come li chiamerebbe Edoardo Sanguineti.
Fine delle due piccole premesse.
“FUORI! è un progetto sperimentale che mette in relazione pratiche artistiche collaborative e partecipative con persone adolescenti”: con queste precise parole si apre il libro che presenta il multiforme progetto curato da Silvia Bottiroli per ERT.
Iniziato un anno fa con alcune Nightwalks with Teenagers (io c’ero, ne scrissi QUI) è proseguito in varie tappe, fino a una forma-Festival appena terminata.
Il progetto guidato da Silvia Bottiroli ha proposto un fecondo e stratificato discorso (termine da intendersi foucaultianamente come “luogo dell’articolazione produttiva di potere e sapere”) assumendosi la responsabilità di instaurare ciò che Jacques Rancière definisce regime del sensibile: un modo di organizzazione delle evidenze che determina il rapporto fra ciò che, in una data epoca o in un determinato contesto (in questo caso: la comunità riunitasi a Bologna) è sensibile e ciò che non è sensibile, fra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile e -di conseguenza- fra ciò che è enunciabile e ciò che non lo è.
Per chiarezza (e per esempio): a FUORI! abbiamo potuto praticare il Percurso di Carolina Bianchi, e dunque ora ne possiamo ragionare, perché Bottiroli ha deciso di metterlo in programma. Se così non fosse stato, le persone che hanno creato questo accadimento non avrebbero potuto dir la loro e noi non avremmo avuto modo di dir la nostra sul loro dire.
Fin qui, nulla di nuovo: è ciò che fa, con tutta evidenza, qualsiasi giuria o direttore artistico, illuminatə o meno, di qualunque Festival, rassegna o manifestazione, grande o piccola che sia.
Quel che pare doveroso sottolineare, in questa precisa occasione, è l’intenzione (nell’accezione etimologica di in-tensione, di spinta che dall’interno del soggetto muove verso l’altro da sé), che nel caso di FUORI! si fa, nomen omen, progettualità.
E si fa luogo, direbbe Michel de Certeau, a partire dalla “necessità di fondare il posto da cui [si] parla”.
Dovesse interessare, lo scrive in un saggio illuminante: Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo.
Lì prosegue: “Tale posto non è affatto garantito da enunciati autorizzati (o autorità) sui quali il discorso poggerebbe, e neppure da uno statuto sociale del locutore nella gerarchia di un’istituzione dogmatica […] il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione”.
Tale coincidenza tra identità del soggetto attuante e accadimento posto in essere mi pare essere il principale o almeno un plausibile fil rouge tra quanto è stato offerto all’esperienza nei giorni del Festival, o almeno all’unico a cui ho partecipato io, venerdì 9 giugno 2023.
Del tanto che ho incontrato, ai fini del presente discorso credo funzionale concentrare l’attenzione su tre accadimenti in un certo senso affini e complementari: la performance Body of Knowledge di Samara Hersch, la già nominata azione pubblica Percurso di Carolina Bianchi e il progetto di arte pubblica MAI+ di F. De Isabella.
Per inciso, ma importante: cito così, per sintesi e a favor di leggibilità, le autorialità di queste creazioni, anche se sono molte le persone a diverso titolo coinvolte in questi e negli altri progetti di FUORI!, luogo (De Certeau, ancora) che incoraggia la fioritura di un possibile noi.
.
,
Tornando alle creazioni prese in considerazione, due questioni speculari.
Ovvietà, ma le voglio ribadire: due facce delle stessa medaglia.
La prima faccia della medaglia.
Quando l’arte (performativa, cinematografica, visiva, coreutica, teatrale, urbana o pubblica che sia) pone al centro la specificità di persone che si discostano dal modello dominante o tematiche sociali e civili, spesso passa in secondo piano la questione del linguaggio, come se occuparsene fosse un sofisma pseudo-intellettualoide quasi offensivo rispetto all’urgenza (per riprendere un termine consumato da teatranti e affini) del dire e del manifestarsi.
Dimenticando, forse, che la storia dell’arte è ineluttabilmente storia della forma, dunque del linguaggio: del come, prima e più che del cosa.
E che a porre in essere tali dispositivi sono artistə, non educatori o assistenti sociali.
La seconda faccia della medaglia.
Il linguaggio, con le sue connaturate regole di sintassi, è -se e quando lo si usa con dinamitarda precisione- strumento di espressione e trampolino di libertà.
Ma, lo sappiamo, il rischio del generico è dietro l’angolo e quello dell’essere parlati (in vece del sacrosanto prender parola) è onnipresente.
“Lo strumento che abbiamo usato per risignificare queste immagini è stato raccontarle” scrive F. De Isabella nel testo di introduzione al suo visionario progetto estetico (dunque, etimologicamente, conoscitivo) MAI+.
A questo, credo, serve il lavoro dellə artistə, soprattutto quando tratta temi e incontra persone la cui specificità richiede una peculiare attenzione linguistica affinché essa possa divenire comunicabile: possa cioè essere risignificata per sé e per chi vi si imbatte.
Body of Knowledge di Samara Hersch è, come annunciato, una performance nel senso efficacemente sintetizzato da Patrice Pavis nel suo Dizionario del teatro: “Il performer è colui che parla e agisce a suo nome (come artista e persona), rivolgendosi al pubblico in tale veste, mentre l’attore rappresenta il proprio personaggio e finge di non sapere di essere un attore di teatro. Il performer realizza una messa in scena del proprio io, mentre l’attore recita la parte di un altro”.
La messa in scena, come l’arte contemporanea almeno da Air de Paris di Marcel Duchamp del 1919 in poi ci ha abituato ad esperire, è smaterializzata.
La decina o poco più di performer adolescenti sono a casa propria e interagiscono con noi tramite un piuttosto fallace sistema di chiamate WhatsApp. Tra un “Pronto?” e un “Mi senti?”, un “Ci sei?” e un altro “Pronto?” ho l’occasione di chiacchierare con alcune di queste persone.
Ma l’avran fatto un sopralluogo?, mi chiedo. Com’è possibile che un progetto che si fonda sulle telefonate, inserito in un Festival realizzato non certo con due spicci, non abbia posto in essere questa basilare verifica?, penso.
Comunque.
Parlo con queste persone.
Alcune più timide, altre più spigliate.
Alcune mi chiedono cosa penso dell’Ucraina, altre mi raccontano la loro passione per il ballo.
Mi fanno poi cuocere popcorn, distribuire birre, stendere su materassini a forma di pizza in una dimensione quotidiana, pseudo-pop, di chiacchiera, appunto.
A cosa questi pochi minuti di feriali parole in generica libertà, per di più tecnicamente sincopati, dovrebbero servire, alle persone al di qua e al di là del filo?
Cosa ha spostato questa performance dal punto di vista del linguaggio (che -torno a dire l’ovvio- è ciò di cui ci occupiamo, occupandoci di arte)?
Detto altrimenti: quale consapevolezza del nostro consistere semanticamente, dell’incarnare una lingua, della salvifica possibilità di delocarsi e così finalmente tradursi in segno (come ci ha suggerito, tra gli altri, Claudio Parmiggiani) implementa, questo dispositivo?
Tutt’altra nitidezza comunicativa ha avuto l’azione pubblica Percurso. Un piccolo gruppo di persone con vissuti di violenza di genere ha guidato un’affollata camminata nelle vie dietro l’Arena del Sole di Bologna.
Ogni performer aveva in mano un piccolo amplificatore, dal quale usciva la propria voce registrata, tra racconto di alcuni fatti e riflessioni più generali sul tema.
La prossemica e l’affollamento obbligavano noi spettatori-camminatori a farci spazio e ad avvicinarci intenzionalmente a questo o a quell’altoparlante per poter sentire ciò che veniva detto. A prendere, materialmente e metaforicamente, posizione.
Lə performer, mutə e al contempo eloquentissime, erano luogo (De Certeau, ancora e ancora) di quelle enunciazioni.
La semplice (uso questo scivoloso aggettivo nel senso più descrittivo e agerarchico possibile) nettezza di tale dispositivo funzionava un po’ come i celeberrimi Concetti spaziali (comunemente detti tagli) di Lucio Fontana: significanti in quanto tali ma al contempo forieri di ulteriori affacci, se chi li incontra è disponibile a ciò.
In alcuni momenti il Percurso si è interrotto di colpo e la ridda di discorsi multilingue dagli altoparlanti hanno lasciato spazio a un paesaggio sonoro spigolosamente quotidiano fatto di cani che abbaiano, amici che festeggiano, televisioni accese con il blaterare che sempre ne esce.
Con la stessa repentinità, al termine, lə performer semplicemente si son dileguatə, gettando lə spettatorə nella brutale responsabilità del proprio posizionarsi rispetto a quanto appena ascoltato e, ancorché in minima parte, condiviso.
Percurso, grazie a una struttura linguisticamente chiara, si è posto con la radicale oggettività di un fatto.
O, per meglio dirla ancora con Silvia Bottiroli (in questo caso nelle righe di presentazione di MAI+): “Si pone nello spazio senza occuparlo muscolarmente e vi aggiunge dei segni in modo deciso, situato e orientato, ma con delicatezza”.
E di fatti decisi e delicati che ci liberino dal chiacchiericcio quotidiano ne abbiamo, tuttə, un gran bisogno.
Per concludere e rilanciare: del progetto di arte pubblica MAI+, del suo spalancare spazialmente e temporalmente la progettualità di FUORI! a un altrove che si realizza nella responsabilità degli sguardi e dei posizionamenti di ciascunə tanto si potrebbe, e forse dovrebbe, dire.
Per ora rilancio al sito web dedicato a questo progetto: che serva come trampolino per ulteriori capriole del pensiero, dello sguardo, dell’esperienza.
Per parte mia di questo (nonché del titolo del presente articolo, che ho rubato a un testo invisibile di MAI+) profondamente ringrazio.
–