Quanto siamo disposti a fare pur di proteggere la parola “insieme”? L’attrice Luisa Borini se lo chiede in Molto dolore per nulla, spettacolo di cui è anche l’autrice, in scena in anteprima nel Chiostro del Teatro Arena del Sole (Bologna) mercoledì 22 giugno. Con un linguaggio teatrale contaminato dalla stand-up, il monologo è dedicato al tema della dipendenza affettiva e alle dinamiche relazionali che questa può comportare. Il punto di partenza è una materia autobiografica capace di comprendere non soltanto la sfera amorosa, ma anche quella amicale, famigliare, sociale e affettiva, risuonando in qualche modo in ognuno di noi.
Qui una chiacchierata insieme a Luisa Borini, che racconta l’ideazione e lo sviluppo del suo spettacolo e approfondisce il macro-tema della dipendenza affettiva.
Come e quando è nata l’idea di questo tuo primo monologo?
Artisticamente lo spettacolo è nato in pandemia, in concomitanza con il mio bisogno e la mia voglia di scrivere. In precedenza mi era già capitato di comporre racconti e monologhetti, sempre pensati per il teatro, ma non avevano mai preso una forma completa. In quel periodo mi trovavo invece in una stasi dopo aver cambiato molte cose della mia vita, tra cui l’aver messo in crisi la relazione col ragazzo con cui convivevo. Anche lavorativamente avevo cominciato a chiedermi il perché di certi percorsi e che cosa stessi facendo. Piano piano è cresciuto in me il bisogno di ritrovare un centro e smettere di disperdermi. Così un pomeriggio ho iniziato a scrivere, arrivando almeno a una trentina di pagine, molte delle quali sono rimaste invariate. È stato come una liberazione improvvisa: il testo è uscito come se lo avessi vomitato. È un po’ come accade alla fine di una relazione: rimangono tante parole in bocca, che vanno masticate. Poi piano piano dalla bocca passano allo stomaco, vengono digerite. È una morte che si fa concime per un terreno nuovo.
Dopo la fase di scrittura in cameretta, c’è stata la possibilità offerta dagli amici di #narrandoBO di inserire un estratto nella loro mailingBO e poi l’occasione di fare una residenza a Strabismi, in Umbria, dove ho presentato i primi 40 minuti. Infine ci sono state altri due periodi di residenza al Teatro della Limonaia e a Spazio Zut!.
Il tuo monologo strizza l’occhio alla stand-up comedy. Quali sono state le tue fonti d’ispirazione e che come hai sviluppato la contaminazione con questa pratica artistica?
Non l’ho scelto scientificamente, l’ispirazione si è originata un po’ per caso, quando una miccia inaspettata si è accesa in me a partire dal personaggio di una serie tv: la stand-up comedian Mrs. Maisel di The Marvelous Mrs. Maisel. La sua urgenza di raccontarsi ha rispecchiato un mio sentimento di quel momento, un vivo bisogno. Guardando poi anche a Fleabag, mi sono resa conto che alcune modalità di verbalizzare ciò che ho dentro sono molto simili: io parlo spesso da sola, ad alta voce, dandomi del tu o guardandomi da fuori. Tuttavia, hai detto bene prima: il mio monologo strizza l’occhio alla stand-up, non la ricalca. È un linguaggio che mi ha permesso di entrare in relazione col pubblico, aprendo un canale di comunicazione immediato. Nel tempo è diventata un espediente drammaturgico, il momento in cui tento di stare in un “up”, di “raccontarla”, sia a me stessa sia agli altri. Volevo che lo spettacolo avesse lo stesso andamento delle dinamiche relazionali, dall’entusiasmo della favola alle piccole stonature fino allo schiaffo finale perché si comincia a guardare le cose per quelle che sono. La stand-up diviene la mia maschera – simboleggiata dall’uso del microfono – dietro la quale mi nascondo; tutta la parte più amara, vera e intimista la dico liberandomi da questo filtro. Il filo del microfono con cui gioco, mi ci impicco, mi ci annodo vuole anche essere metafora degli della relazione, della dipendenza.
È interessante perché questa postura, questo stare in “up” e raccontare a sé stessi e agli altri che tutto va bene, ha a che fare tanto con lo specifico tema della dipendenza affettiva quanto con la macro-questione dell’individuo in relazione alla società e all’altro. In questo senso, parti solo dalla tua autobiografia o ci sono altri riferimenti, studi…?
Parto di certo dalla mia personale esperienza, che è poi quella che racconto in scena, ma negli anni ho raccolto anche molti dialoghi con amiche e amici. Ho voluto ascoltare altre storie per capire se nella dinamica relazionale della dipendenza affettiva ci fossero dei temi e nuclei ricorrenti, scoprendo che era proprio così: comincia sempre con la favola, seguono momenti in cui il partner ti mette in paragone con qualcun altro e inizia essere subdolo, dubitare, essere geloso; inizia a convincerti che qualcosa in te non va più tanto bene come nel primo periodo in cui si era perfetti. A questo punto si perdono le coordinate e si farebbe di tutto pur di tornare all’idillio. In altre parole, in questo tipo di relazioni, c’è sempre un manipolatore e un manipolato, in una dinamica che spesso finisce anche per invertirsi. Un altro aspetto che ritorno è che l’oscurità e le stonature che avvengono non le si racconta mai, né a se stessi né tanto meno ad amici e famigliari. Si vuole continuare a vedere quanto si stava bene e a proteggere la parola “insieme”.
Un’altra occasione di approfondimento sono state il podcast Proprio a me di Selvaggia Lucarelli e un gruppo Facebook di una ragazza che aiuta donne a uscire da dinamiche relazionali e lavorative sbagliate, quelle in cui si dà così tanta importanza all’altro da dimenticarsi se stessi.
Oltre al microfono come maschera e il suo filo come metafora della trappola relazionale, indossi un vestito rosso, che ha anche un taglio molto particolare e originale. Cosa simboleggia? Ha un significato drammaturgico?
Fin da subito ho pensato che l’abito di scena dovesse essere rosso. Certo, lo si può vedere come simbolo della violenza; in verità la scelta è nata d’istinto e poi ha in effetti acquisito un significato anche drammaturgico. Racconto infatti di un episodio in cui io e lui fantastichiamo su come mi starebbe bene «quell’abito rosso di Valentino» esposto in vetrina. Lui mi dice che prima o poi tornerà a casa con quel vestito perché «me lo merito». In scena, quando uso questa espressione, non è da intendersi soltanto in senso positivo, anzi, è un modo per far capire come in quel momento io credevo di poter sopportare tutto, nel bene e nel male. Indossare quindi quel vestito rosso sul palco è una rivincita: me lo sono comprato io e non è vero che a me si può fare tutto. Posso e devo dire no. Inoltre, il taglio asimmetrico dell’abito è stato pensato insieme alle sarte che lo hanno realizzato, le ragazze di Clotilde. Volevo che avesse tante facce, che fosse femminile, frivolo e serio al contempo, ma che anche rimandasse a una indole infantile.
Nello spettacolo, inevitabilmente, dai un punto di vista femminile e la tematica della dipendenza affettiva è declinata sulla coppia. Il problema riguarda solo le donne e le relazioni, oppure è più ampio?
È decisamente più ampio, riguarda tutt* e ha a che fare con le relazioni in generale, quindi non soltanto d’amore, ma anche famigliari, lavorative, amicali. La dipendenza affettiva è entrata nel DSM-5 delle dipendenze, dimostrazione di come sia una questione del nostro secolo: viviamo in quella che Bauman definisce “società liquida” in cui le relazioni sono molto fragili. Di per sé il problema è relativo a una persona che ha un grande bisogno dell’altr* e che farebbe di tutto pur di non sentirsi sol* o abbandonat*. È una sorta di tossicodipendenza per cercare di colmare un vuoto ci si affida all’altr* che diventa la ragione di vita. Senza l’altr* non si esiste, per chi è dipendente affettivo. Il vero problema sorge però quando dall’altra parte si trova qualcuno che concede questa dinamica, perché magari ha bisogno di un’altra tipologia di conferma, di vuoto da colmare. È qui che sorge una dinamica malata. Il sentire il bisogno dell’altr* è qualcosa di profondamente umano e non è di per sé sbagliato; lo diventa quando ci si annulla in quanto persona, quando ci si convince che senza l’altr* non si esista, quando si è disposti a tutto pur di stare insieme. La dipendenza affettiva infatti può sfociare in dipendenza psicologica.
Sono dinamiche che provengono da alcuni canoni sociali che ci sono stati lasciati in eredità e dai quali siamo inevitabilmente influenzati, questione che metti in luce anche nel tuo monologo…
Si, abbiamo canoni e modelli – dalle fiabe alle dinamiche sociali dei nostri genitori e nonni – che ci mostrano un romanticismo non propriamente sano, per cui ci siamo convinti che da soli siamo incompleti, che una vita senza un’altra si annulla. In verità non dobbiamo cercare l’altra metà della mela, siamo una mela unica in un cesto di tante altre mele uniche. Non è facile riconoscerlo e riuscire a sentirsi “interi”, è una sfida gigante con noi stessi.
Molto dolore per nulla, che però si rivela non essere “per nulla”. Da dove nasce il titolo?
Anche in questo caso ho voluto ricalcare la dinamica relazionale, in cui si sminuisce il proprio sentire, ce la si racconta ma poi, alla fine, si arriva laddove non ci si aspettava: non è vero che quel dolore è stato per nulla. Mi piaceva inoltre il riferimento, scherzoso, a Molto rumore per nulla. Lo spettacolo vuole infatti restituire uno sguardo autoironico su tutto quello che è stato e che si è vissuto, non per alleggerire, ma per decidere che cosa farsene tanto di quel che resta, tanto di quel vuoto. È un modo per esorcizzare il dolore, che rimane lì insieme alle ferite, ma a osservarlo si può scegliere come maneggiarlo. L’unico modo che ho conosciuto finora – ma non è una risposta definitiva, non sono affatto risolta – è non guardare più all’altro ma a me stessa. Questo ovviamente non è da intendersi in termini narcisistici – si ricadrebbe in un’ulteriore dinamica malata – ma da leggere come un imparare a prendersi carico di quello che si è, dandosi valore. La prima relazione sana che bisogna avere è quella con se stessi.
Per approfondire: https://www.luisaborini.com/