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Vivo in una città che ha deciso, ormai da anni, di applicare la raccolta differenziata puntuale. Così, nella mia piccola magione, al posto della pattumiera sotto al lavello, è comparsa una cassapanca. Un’intera parete del soggiorno è dedicata al mobile, che contiene tre cestini deputati a carta, plastica e indifferenziato. L’umido si è guadagnato un posto fuori dalla finestra della cucina, perché per fortuna c’è un davanzale esterno. Per il vetro uso un contenitore a fianco della soglia, che ruota ogni sei mesi circa, scambiandosi con altri bidoni, a seconda del colore prevalente della stagione – attualmente è rosa.
Quando vado a passeggio con la canetta Sussu non c’è giorno nel quale non si passi da strade invase dai rifiuti. Puntualmente cerchiamo di farci largo tra i gialli promontori dei sacchi della plastica (il mercoledì), nel bianco e rosso terraforming di quelli dell’indifferenziato (lunedì e venerdì), fra l’azzurro mare di carta del lunedì, accompagnate dal beige molto natural-desertico delle sere (lunedì, mercoledì e venerdì) nelle quali la popolazione deposita l’umido accanto alla porta di casa. A parziale consolazione, devo dire che, da quando lei è con me, la tristezza con la quale questo arcobaleno del consumo mi attanaglia si è fatta più rarefatta, in quanto il suo goloso interesse riesce a smorzare e ristrutturare il cosmico pessimismo sulla impossibile sostenibilità della vita umana.
Quando ogni colore si trasforma in un diverso profumo, e attraverso il suo naso il paesaggio-discarica muta in un luna park dei sensi, diventa vano il tentativo di condividere con lei il mio orrore. Questo mi meraviglia, mi infonde tenerezza, e attiva il pensiero intorno ai limiti della percezione e della costruzione culturale dello spazio che occupiamo, mentre, a mia volta differenziando, candeggio pure la coscienza, con il dito puntato contro chi non segue i dettami del nuovo credo capace di farci presumere che possiamo consumare illimitatamente senza far danno: l’ecologia imbavagliata.
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Quattro passi nella natura
“E diceva: siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito.”
Paolo Cognetti, Le otto montagne
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Noi persone di città siamo talmente abituate a pensare il territorio che ci circonda come a qualcosa di estraneo ed esterno, a tal punto educate a interfacciarci con esso in termini utilitaristici, così pregne di logica binaria, da aver connotato i termini con i quali lo definiamo con una quiddità volta a porli fuori dai confini del nostro corpo, e anche dello spazio che abitiamo e nel quale esprimiamo operosità. Il più esemplificativo fra tutti, abusato e imbalsamato come gli esemplari esotici che da metà ottocento prendono polvere nei musei di storia naturale, è quello, per l’appunto, di natura.
La natura è spesso concepita come sinonimo di ristoro e consolazione, come se questo gusto – totalmente situato – per le alte vette, le dolci colline, il dondolio della risacca, esistesse da sempre nell’apparato percettivo dell’homo sapiens, allo scopo di dare sollievo nelle difficoltà delle vita quotidiana. Nel mainstream d’Occidente, scritture sacre prima, e scientifiche poi, si sono infatti ben adoperate per far sedimentare il principio di sovranatura, volto a porre la specie umana al di sopra del suo ambiente.
Viene così stabilito un regime discorsivo che concettualizza il suolo che tocchiamo come luogo di dominio, creato perché vi si possa adoperare sfruttamento e conoscenza obiettiva finalizzata al rendimento. Salvo poi organizzare una gitarella in campagna quando è troppo, rispondendo a una concezione romantica del paesaggio come messa in forma artistica della natura, proiezione angosciante o beatamente bucolica dei sentimenti di chi lo osserva.
In realtà la nostra esperienza della natura è profondamente storica, per niente universale nel tempo e nello spazio, perché sempre mediata da una particolare sensibilità. Il paesaggio nasce da un incontro tra il dentro e il fuori, chi osserva e ciò che è osservato. Il geografo culturale francese Augustine Berque, per esempio, afferma che la sensibilità paesaggistica è un tipo di possibilità percettiva presente solo in alcune popolazioni umane in determinate epoche. Un territorio diventa paesaggio solo quando è mediato culturalmente e interpretato dal soggetto. Il paesaggio nasce strutturato in uno sguardo, nell’interazione fra dimensione ecologica e dimensione simbolica, non per bramosia di dominio, ma come rapporto estetico di una società con il suo ambiente.
Anche la filosofa italiana Luisa Bonesio, una delle massime esponenti della geofilosofia, valorizza, nel suo pensiero, gli irriducibili aspetti culturali, sociali, insediativi e di intersezione tra un territorio e le comunità che lo abitano. Per farlo, prende in prestito la parola tedesca Heimat, intesa come terra natìa, luogo caro in quanto casa propria, grembo materno, esatto contrario di quegli spazi, mancanti in identità, relazionalità e storicità, definiti dal sociologo Marc Augé come non-luoghi – metropolitana, aeroporto, centro commerciale, e via dicendo.
Heimat non è patria da difendere in quanto culla di una civiltà superiore, perché per luogo si intende uno spazio qualificato in quanto meta più che origine, che diventa Heimat per chiunque applichi nei suoi confronti un atteggiamento di cura e considerazione, costituendo comunità di paesaggio. Non importa dove siamo nati, quello che conta è come ci interfacciamo, in ogni momento, con ciò che abbiamo intorno – anche nei due o tre giorni di una gita fuori porta. Aver cura del paesaggio è stimolare legami sociali tra le popolazioni – anche transitorie – e il territorio, incentivare processi di identificazione con i luoghi nei quali viviamo, riabilitare il concetto di genius loci tenendo conto di differenze e specificità nella progettazione architettonica, paesaggistica e sociale, in antitesi al concetto di musealizzazione.
La progettazione sociale contemporanea, sempre più intrisa di paradigma economico-scientifico, sembra invece porre come valore incontestabile la questione della scalabilità, cioè la possibilità di applicare disegni strutturali o di processo a un campo che tende all’infinito. Che siano case, come se il bisogno abitativo potesse avere la stessa risposta ovunque e per chiunque, o sistemi educativi, come se le giovani persone potessero trovare il proprio ruolo nel mondo, indipendentemente dalle proprie storie, tramite l’apprendimento dell’alfabeto latino, più un progetto è applicabile su larga scala, più se ne elogia la validità. Il modello arriva dritto dritto dalle piantagioni degli schiavisti, e dalla successiva organizzazione della fabbrica. Scalabile è il guadagno che abbatte i costi tramite la standardizzazione. Scalabile è tutto ciò che ci fa sentire a casa ovunque.
Per essere scalabile, un progetto, ostracizza ogni diversità passibilmente portatrice di cambiamento, perché deve basarsi sull’assunto che le relazioni che attiva o dalle quali è attivato siano non trasformative e indifferenti all’indeterminazione degli incontri. Occorre che gli elementi che lo compongono abbiano caratteristiche di autonomia, isolamento e intercambiabilità, così che tutto ciò che è locale diventa immediatamente nemico del processo (leggi: va sterminato) perché potrebbe, seducendo, creare mutualismo e meticciato. Per intenderci: Mc Donald è scalabile, Il Pianetino, ristorante sotto casa nel quale Tommi fa i dolci con i mandarini che si è coltivato in giardino, no.
Dunque, alternative, ne abbiamo?
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L’Alternativa ambiente
“Questa è l’ipotesi dello slittamento d’interesse della nostra società che, secondo me, opera silenziosamente nel mondo agitato: non si sente, ha bisogno solo di volontà e di intelligenze felici.”
Gilles Clément, L’Alternativa ambiente
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L’ecologia può essere definita come l’insieme organizzato delle conoscenze sui legami che uniscono gli organismi viventi e il loro ambiente vitale. Si occupa, quindi, di ciò che si pone tra le cose, degli ecosistemi, di ciò che li mantiene sani e in vita, di ciò che li minaccia. La consapevolezza, estesa su larga scala, che concepisce l’ambiente come sistema chiuso, e in quanto tale passibile di esaurimento e morte, è abbastanza recente, anche se oramai pare un topic di conversazione imprescindibile. Abbiamo iniziato ad aver caldo, nelle nostre città sono spuntati come funghi i termovalorizzatori, si sono diffusi tumori e malattie respiratorie: siamo statə toccatə nel nostro Giardino.
Per mantenere in salute un sistema chiuso dovremmo fare come l’albero, quando le foglie cadute diventano nutrimento per il suolo, e così facendo, con ciò che per esso è rifiuto, restituisce all’ambiente, senza dequalificarla, l’energia che gli ha sottratto per la fotosintesi. Ne va da sé che il pensiero ecologista è un false friend del mercato consumista, che produce rifiuto che non può essere reimmesso in circolo, in quanto la plastica di scarto difficilmente potrà essere ritrasformata in sostentamento, nemmeno quando riusciamo a essere così virtuosi da farci una maglietta.
Il neoliberismo, costruendo le sue tattiche difensive, ha tentato con ogni mezzo di assimilare l’ecologia radicale a una sorta di nuovo fascismo, o di ridicolizzarla in quanto modus vivendi incapace di ragionare sulla complessità della realtà economica e sociale. Quello a cui dovremmo fare più attenzione è però il suo avvalersi di una terza strategia, quella più insidiosa e ammaliante, capace di assorbire un discorso di rivoluzione nel sistema produttivista, allo scopo di farlo sparire per sempre. Stiamo parlando della green economy, trampolino di lancio del cosiddetto sviluppo sostenibile.
Senza andare troppo lontano, e seguendo il principio di non contraddizione, lo sviluppo infinito dovrebbe presupporre l’esistenza di risorse infinite. Vivendo in un mondo finito di risorse finite, non dovremmo concepire come finito anche lo sviluppo, indirizzandoci piuttosto verso un non sviluppo? In altre parole: come può lo sviluppo, che tende all’infinito, essere sostenibile, se il sistema è finito?
Dare risalto a piccoli atti di segno ambientalista, come la raccolta differenziata, il contingentamento dell’utilizzo dell’acqua, l’arrivo dei prodotti bio nella larga distribuzione, contribuisce al depistaggio. Almeno fino a che l’orientarci a questi comportamenti sarà la panacea che ci permette di coprire gli occhi sulle grandi opere di inquinamento e distruzione.
Eccola qui, l’astuzia definitiva: l’ecologia imbavagliata, commercializzata, rientrata dalla finestra nel meccanismo liberarle come nuova morale del Capitale. La grande narrazione dello sviluppo sostenibile permette alla causa di disastro economia di mercato di funzionare tranquillamente e a carte scoperte, senza produrre, a differenza di guerre, inondazioni o pandemie, alcun motivo di sdegno o scalpore, e di conseguenza alcuna azione incisiva per modificare le basi che stanno portando alla catastrofe – perché proprio alla catastrofe deve la propria esistenza.
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Una possibile soluzione altra, identificata dal paesaggista Gilles Clément, e vicina alla idee sull’abitare di Luisa Bonesio, si può trovare proprio nel grande progetto universale ma non scalabile dell’Alternativa ambiente: una coscienza planetaria del nostro ruolo di giardinieri del Giardino planetario, che passa attraverso esperienze empiriche definite sul campo caso per caso, filiera corta di produzione/distribuzione, diversificazione, armonia con le stagioni – non prevedibile in anticipo, alta qualità, prezzi accessibili, scambio e condivisione delle risorse, programmi di equilibri che costituiscono un valore ben individuabile nel discorso ecologico, ma non quantificabile per il mercato.
Come nell’animismo la specie umana deve ritrovare il proprio rapporto di equivalenza e simbiosi con gli altri esseri viventi, uscendo dal progetto cartesiano di dominio su una natura addomesticabile o nemica, oggetto di sfruttamento, osservazione o piacere, e di concezione dei paesaggi come anonimi e intercambiabili. Noi siamo esseri di natura, viviamo immersi in essa, e l’unica via per co-costruire ambiente è in relazione e dialogo tollerante con le invenzioni della vita.
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Prendersi cura
Sembra un’utopia, vero? Rivolgiamoci dunque al genius loci, per provare a capirne una qualche applicabilità locale.
Alcune mattine fa la mia compagna è andata a comprare delle albicocche. Ammettiamolo, colpevolmente: al supermercato. Per uscirne almeno parzialmente immacolata ha deciso di servirsi delle mani nude per trasferirle nel sacchetto biodegradabile, perché rinunciare all’imballaggio usando un guanto in plastica le è parso quantomeno contraddittorio. Ed eccola lì, dietro l’angolo, pronta a far sentire la sua voce, la polizia dell’igiene: una signora, senza indugio, le ha tirato le orecchie, dicendole di smetterla subito, perché lei la frutta toccata dalle altre persone non la vuole mangiare.
Dimentica delle molte e molte mani di chi compone la catena che ha portato quel frutto nello scaffale, appartenenti a chi ha piantato il seme, erogato il pesticida, raccolto il prodotto, caricato sul camion, spostato sull’aereo, messo nell’altro camion, compartimentato in cassette, stipato nel furgone, trasferito nel punto vendita, la signora ha svolto con diligenza la parte di cittadina attenta alla propria salute, di paladina versus i rischi del contagio – che, ricordiamolo, è una di quelle catastrofi che crea scalpore.
La nostra signora deve aver travisato il significato profondo del prendersi cura, ottenebrata da un modello economico-medicale che, per contenere le spese e votarci all’accumulo, standardizza la produzione dell’albicocca mentre ci intride di separazione e sospetto. Potremmo provare, quindi, a farle un appello.
Signora, si unisca a noi! È ora di trasformare in prassi un pensiero sovversivo sul rapporto della specie umana con il proprio ambiente. Nel suo corpo vive già, in perfetta simbiosi, un microbioma composto da batteri, protozoi, virus e funghi. Sono sulla sua pelle, nelle vie respiratorie e urinarie, nell’apparato genitale e in quello digerente. Tutti loro la aiutano a stare in salute e a creare il paesaggio nel quale si compie la sua vita. Pensi, un giorno, ciò di cui è composta salderà il conto con la Terra, trasformandosi in fiore, erba, verme, e sì, anche nella sua agognata albicocca. Non è il sentimento di vita eterna più concreto e commovente al quale si possa aspirare?
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Dimentichi il percorso automatico tra casa sua e il supermercato, faccia una passeggiata senza meta, incontri l’inaspettato, occupi con il suo corpo un parcheggio, si applichi in pratiche di place making esternando ciò che pensa su come vorrebbe il luogo che abita, portando i suoi bisogni e le sue soluzioni nello spazio pubblico, perché non solo di decisioni prese dall’alto può essere composta la nostra vita. Vaghi in cerca di albicocchi selvatici, li rivendichi sul suo marciapiedi, si lasci andare alla crisi, riconnettendo comunità e ambiente nel paesaggio e usando l’ecologia per significare il Giardino del quale le tocca prendersi cura. Sì sì, anche a lei! Signora mia, siamo chiamatə al più alto dei compiti: ridefinire il nostro posto nel cosmo, tramite la via dolce dell’accoglienza, e per farlo toccherà per forza di cose farsi coraggio, obliare la paura del morbo, e prendere contatto.
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Letture
Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo, 2021, Keller Editore
Gilles Clément, L’Aternativa ambiente, 2015, Quodlibet
Paolo Cognetti, Le otto montagne, 2016, Giulio Einaudi editore
Visioni
Jessie Homer French
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[…] PRENDERSI CURA DEL PAESAGGIO. È STAGIONE DI CACCIA AL GENIUS LOCI? […]
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