–
Prima nazionale il 22 giugno (con repliche fino al 30) per Apocalisse, nuova creazione di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, produzione internazionale di Lenz Fondazione e allestimento site-specific per l’area Workout Pasubio_Padiglione Nervi, a Parma.
.
In ogni atto comunicativo non si può, forse, prescindere dalla posizione del soggetto guardante (o, in questo caso, domandante). Nei giorni in cui abbiamo realizzato questa intervista era in corso in Emilia-Romagna una gravissima emergenza climatica, con una furiosa alluvione che ha devastato molte zone della nostra regione. Numerosi giornali, raccontando ciò che stava accadendo, hanno usato il termine apocalisse. Leggendo i materiali di presentazione della vostra nuova creazione vi sono alcuni espliciti riferimenti alla realtà sociale e ambientale del nostro Pianeta -come gli estratti video realizzati nello slum di Nairobi- elemento non comune, nel vostro lavoro. Quale rapporto con il presente istituisce, questa Apocalisse?
Fuori da ogni intento di esegesi o di interpretazione teologica ma solo attenti al linguaggio espressivo e drammaturgico dovremo forse parlare di conversione, intesa come trasformazione, mutare radicalmente la direzione, o nel significato psicoanalitico il passaggio da un conflitto psichico a sensazione fisica, oppure nel significato più comune di passaggio da uno stato pragmatico e materialistico a uno stato di fede religiosa, qualsia essa sia. In ogni caso un comportamento condizionato, anche inconsciamente, dall’abbandono di una direzione che si ritiene sbagliata perché alcune condizioni non risultano più sopportabili. Questa conversione ad accettare l’ingresso, senza mediazioni linguistiche – che poi in parte permangono – della realtà apocalittica che vedono i nostri occhi ogni giorno, che iniziamo a vivere anche se a distanza da situazioni ormai intollerabili. Apocalittica è la centralità antropocenica, per come la percepiamo collettivamente e apocalittica per ogni singolo individuo, di fronte a se stesso. Ciò che ci dice Giovanni da Patmos è che tutto è già successo e succederà ancora in modo differente, tutto dipenderà da ciascuno di fronte alla propria rivelazione. Sono echi di religioni antiche, tutte in lotta contro il potere dominante – che sia la Natura o un Faraone – che risuonano però ancora terrificanti. Dandora a Nairobi, o l’isola dei rifiuti nell’oceano, la siccità e le alluvioni ci spingono ad una conversione artistica, come superare la centralità dell’umano. Già in Numeri avevamo portato il Po ridotto a deserto per segnalare l’urgenza di un nuovo censimento tra umano e non umano, nuove leggi di relazione con la natura e la materia, e una nuova terra promessa come ipotesi utopica e profetica. Le immagini simbolo di questa Apocalisse sono l’Agnello, questo genere di animale così antico, così fondante per la religione cristiana e per il teatro (Abele come inizio del sacrificio cruento, Agnus Dei come Cristo, rito dionisiaco, ecc.) e così per il tema della nostra ricerca sull’Apocalisse dove l’attesa, dopo la catastrofe, è ancora per l’Agnello che sanguina e che dominerà la nuova Gerusalemme dei convertiti insieme ad un grande gancio d’acciaio presente nell’ex-opificio luogo dell’installazione. Natura e Fabbrica, due temi per sopravvivere.
Come spesso accade nella vostra ricerca, i singoli accadimenti performativi sono inscritti in progettualità pluriennali, in questo caso un’«indagine drammaturgica quadriennale sulle Sacre Scritture, riflessione estetica contemporanea di Lenz sulla letteratura del sacro». In che modo l’incontro con questo specifico materiale ha modificato, o comunque indirizzato, il vostro lavoro dal punto di vista testuale?
“Sono ateo ma la religione mi commuove.” ha detto Marco Bellocchio a Cannes, ma oltre alla commozione penso che la religione cristiana faccia parte del nostro imprinting culturale e che produca sentimenti ma anche azioni. Il Cristo in croce è immagine che ci pone interrogativi fin dall’infanzia, non ci abbandona crescendo d’età indipendentemente dalle nostre convinzioni che si sono sviluppate, quel corpo e quel viso ritratto ci ha costretti da subito all’empatia del dolore e della visione, che sia un Antonello o un Holbein o un vecchio elemosinante. Con La Creazione, Numeri, questa Apocalisse e le prossime Apocalissi vogliamo attraversare il nostro Inizio, il nostro deserto, il nostro svelamento e conversione, la nostra Gerusalemme. Nietzsche, Deleuze, Stirner, Lawrence, Blake e molti altri teologi, filosofi e poeti ci aiutano a superare lo stretto margine dello stereotipo, ci pongono questioni di potere e ritorno alla prima cristianità, al Giovanni buono che non può essere lo stesso del Giovanni esiliato a Patmos, ci dicono di un Agnello che porta la spada nella bocca e che non può essere l’Agnello della misericordia, il Cristo redentore, che un potere non si può sostituire con un altro Potere, seppure ritenuto più giusto e salvifico, oppure come appunta Calasso nel suo bellissimo piccolo libro L’Apocalisse è l’autodistruzione del Cristianesimo. Penso che le scritture sacre, anche di altre religioni, siano i più grandi contenitori filosofici del pensiero umano, ogni nostro comportamento verso la natura, la vita e la morte è condizionato, indipendentemente dall’aver fede o meno, da questi testi, da queste fonti creatrici di meravigliose e terrificanti immagini, di simboli e “buone novelle”.
Nell’etimologia della parola apocalisse vi è il termine rivelazione che, paradossalmente, può rimandare a due significati antitetici: la manifestazione di un significato o di una realtà celata e, al contempo, un suo ulteriore nascondimento. In che rapporto sta, la vostra Apocalisse, con questa doppia possibilità?
Rivelazione è termine alto, dal significato sacro che induce a vedere l’invisibile, la cosa finora nascosta alla nostra ragione o alla nostra fede, l’apparire del nuovo che ci cambia la prospettiva. La scienza ci dice che una volta vista per la prima volta la cosa invisibile – che sia una particella o il volto di Dio – di nuovo cela/vela qualcosa di ancora più profondo, che occorre continuare a scavare o guardare l’universo oltre il già registrabile. La ricerca costante dell’inconoscibile diventa la vera rivelazione, non la cosa in sé ma l’azione che conduce ad essa, e alla successiva senza soluzione di continuità. Così, pensiamo debba essere la ricerca artistica, come quella scientifica o se vuoi religiosa. Il tempo nell’Apocalisse di Giovanni non esiste, è adesso e adesso ancora, continuamente. Questo ci rimanda al fermarsi del tempo sull’orizzonte degli eventi di un buco nero, ma ecco che Rovelli ci racconta dei buchi bianchi, di un contrappunto spaziotemporale che ipotizza un’uscita di tutto quel che entrato fino ad un grande immenso bagliore, come se le stelle precipitate venissero risputate tutte insieme nello spazio parallelo, in un’altra dimensione. Per iniziare di nuovo ad essere inghiottite ancora e ancora e ancora ha scritto Giovanni da Patmos nella sua Apocalisse.
Dal punto di vista della composizione scenica quali problemi comporta e quali possibilità offre, uno spazio come il Padiglione Nervi?
L’ingegnere Pierluigi Nervi ha progettato e realizzato diverse strutture di copertura, volte a vela con una particolare e rivoluzionaria tecnica dell’utilizzo del cemento armato e del ferro. Quella di Parma è parte di un complesso ex-industriale che ha ospitato prima il CSAC – il Centro Archivio della Comunicazione – poi un esperimento di centro culturale polivalente – il Workout Pasubio -, attualmente tutto il complesso è in restauro per un definitivo utilizzo plurifunzionale. La grande Vela è, nell’installazione di Apocalisse, il primo spazio agito dagli spettatori che attraverseranno diverse sale per arrivare a quella del Carro Ponte dove è stato creato da Maria Federica il nuovo Tempio con pilastri elevati, l’Albero della Vita e il Tabernacolo dorato, per poi ritornare alla Vela. Si tratta per noi di un continuum di pensiero etico-estetico sul monumento Fabbrica, dal nostro spazio ex-industriale Lenz Teatro alle dimensioni di un grande complesso industriale temporaneamente aperto al nostro lavoro linguistico, ogni passaggio sarà un capitolo tra scrittura sacra e interpretazione contemporanea, senza dimenticare la sacralità e la storia di un luogo laico di produzione e vita operaia.
In scena vi saranno C.L. Grugher, Valentina Barbarini, Fabrizio Croci, Sandra Soncini, Tiziana Cappella e il soprano Victoria Vasquez Jurado. Artistə molto diversə tra loro per presenza scenica e collaborazione con voi. In base a quale principio avete individuato questo gruppo di lavoro e quali attenzioni un ensemble tanto eterogeneo richiede, a livello compositivo?
Ogni opera oggetto d’indagine estetica e drammaturgica determina la scelta e le caratteristiche degli agenti in scena, per questa Apocalisse la diversità di esperienze in campo pensiamo abbia contribuito linguisticamente al disegno della dinamica complessa dell’opera stessa, ovviamente riferita alla sua traduzione contemporanea. Così è stato per la lunga ricerca sulle opere di Calderón de la Barca, Shakespeare, Virgilio, Dante, Ovidio e molti altri autori approfonditi negli anni che ha avuto il corpo psichico degli attori sensibili come ‘trasduttore poetico’ della composizione drammaturgica e installativa. In questo progetto quadriennale sulle Scritture Sacre l’intensità interpretativa non può separata dalla presa di posizione etica e politica: Nella Creazione (2021) tessevano un serrato dialogo scenico attorno all’origine del Tutto una Teologa e una Scienziata – Valentina Barbarini e Debora Tresanini, in Numeri (2022) l’enorme e minuta presenza morale di Marcello Sambati testimoniava la responsabilità dell’artista di fronte alla distruzione della natura. In questa Apocalisse la moltiplicazione dell’’io vidi’ dell’Evangelista Giovanni trasferita nei sei performer coinvolti – Sandra Soncini, Grugher, Tiziana Cappella, Valentina Barbarini, Fabrizio Croci e Victoria Vasquez Jurado (soprano) si fa necessariamente scelta politica individuale, in virtù dell’eterogeneità biografica e artistica dei soggetti che hanno risposto alla chiamata: tutti loro sono qui per sciogliere il sigillo del proprio corpo e a farsi visione apocalittica, rivelatrice delle proprie piaghe e di quelle estese e riflesse del nostro tempo.
Quale esperienza del sacro si potrà approssimare, anche mediante la scrittura imagoturgica?
Il sacro è immagine dall’inizio, penso che ogni religione abbia all’origine un’immagine, anche quelle che non contemplano la figura umana, il volto, compongono segni e scritture, costruiscono templi e luoghi sacri dalle forme grandiose che prima ancora di essere frequentati hanno lo scopo di essere immaginati, narrati, visitati prima dalla fede e poi dall’incessante errare pellegrino. Almeno una volta nella vita, ma già l’immagine si è formata nel corpo e nell’anima del credente, o in quella dell’ateo magari tramite forme e colori differenti, visioni diverse. L’immagine è sacra e profana al contempo, nella nostra Apocalisse l’imagoturgia si relaziona con lo spazio esistente ricostruito per l’azione, imprime sui muri echi figurativi rinascimentali e contemporanei, l’Agnello di Dio è tra gli agnelli al pascolo, è tra i bambini della discarica di Dandora, tra le pastore resistenti ed erranti tra monti e valli. La cupola roteante del Correggio di San Giovanni Evangelista accarezza la volta in ferrocemento di Pierluigi Nervi e abita la cupola della Fabbrica, luogo di lavoro operaio e vicende umane, fatica e sacrificio. L’azione, la voce, il canto dal vivo e l’immagine fanno da ponte tra quelli che partecipano al rito e quelli che il rito lo compiono, insieme di nuovo al capro espiatorio, al dionisiaco. L’imagoturgia di questa Apocalisse entra in relazione con gli spazi interni del grande complesso industriale, la composizione è realizzata tramite diverse modalità realizzative: la sovrimpressione di più immagini, in particolare – la cupola del Correggio della chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma -, riprese documentaristiche di agnelli e pecore al pascolo, riprese dal vivo della discarica di Dandora in Kenya – danno forma visuale a più strati in un movimento d’insieme corale. La sovrimpressione è stata ampiamente utilizzata dagli autori cinematografici negli anni ’20 e successivi con i primi esperimenti di surrealismo e futurismo visuale, come gli occhi roteanti di desiderio nella sequenza di Maria’s Dance, Brigitte Helm come lasciva Babilonia, in Metropolis di Lang, poi in seguito – ricordo i meravigliosi occhi daliniani nel sogno ipnotico di Io ti salverò di Hitchcock – è diventata pratica stilistica sempre più raffinata, così come l’illusione ottica. Nella Sala dei Busti apparirà in lentissima dissolvenza incrociata la testa dell’Agnello dell’altare di Gand, nel Polittico di van Eyck, prima e dopo il restauro molto contestato. Gli occhi dell’Agnello, prima quasi invisibili e laterali, riemergono frontali e quasi umani. Dal terrore dell’animale senza parola si torna alla parola che vive, al Logos.
Infine: tra miopi conventicole e conservatorismi linguistici e familistici, il sistema teatrale italiano è ormai al collasso. Secondo voi dove c’è ancora spazio per la ricerca artistica, teatrale et ultra, nel nostro Paese?
Credo di sì, l’abbiamo fatto e continuiamo a farlo. Ci siamo assunti la responsabilità di essere perlopiù stanziali e approfondire progetti pluriennali, e probabilmente, negli oltre trent’anni di lavoro, siamo stati assenti nell’agenda di qualche critico o direttore di teatro o festival ma non ci ha mai davvero importato, necessario per noi era ed è la ricerca continua di nuovo senso etico ed estetico di questa complessa forma artistica, unica, che ha tra gli attrezzi fondamentali del costruire e creare arte gli esseri viventi, anche in un mondo sempre più tecnologico. Penso che, tra mille difficoltà, ognuno lo possa fare ovunque, è questione di scelta poetica ed estetica, se vuoi di politica culturale radicale e soprattutto di vita, dell’esserci in senso artistico e umanistico.
.