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In questo suo ultimo film Nanni Moretti ricostruisce, più che il futuro, il presente, e lo fa ucronicamente immaginandosi un evento che, in un ben preciso, ora forse dimenticato, snodo del nostro passato, avrebbe modificato il flusso e l’evoluzione della Storia quale invece abbiamo conosciuto e vissuto.
Così ritrova un segno caratteristico della sua estetica cinematografica, e del suo modo di concepire film in concreto (e proprio il fare un film è l’oggetto-soggetto del film medesimo), cioè quello di riuscire a far sovrapporre la realtà, ovviamente mimetica, del suo racconto non tanto con la realtà esterna o esteriore che ci circonda, ma bensì con quella interiore e intima in cui siamo sprofondati e che alla fine ci determina, anche nei riguardi di quella stessa realtà esterna, che così filtriamo, interpretiamo e su cui diamo infine un ‘giudizio‘ kantianamente inteso, cioè insieme psicologico ed etico.
Naturalmente usa per far questo, per evitare sovrapposizioni tra percepito e indotto, lo strumento linguistico che più conosce e meglio padroneggia, l’ironia, che però in quest’ultimo caso appare un po’ depurata del sarcasmo che tendeva ad irrigidirla, e talvolta depotenziarla, riempiendo la distanza, che difensivamente e speculativamente crea, con il sentimento, con una inaspettata affettività che trasfigura i toni malinconici della narrazione in una strana, incredibile e altrettanto inaspettata possibilità, quella della speranza.
Il sol dell’avvenire, uscito in questi giorni nelle sale in attesa dell’esame alla consueta trasferta di Cannes, è dunque certamente un film politico, ma è anche, e non solo, un film politico, o meglio usa il suo sguardo molto politico sulla politica (come modo di essere generazionalmente più conosciuto e praticato) per dare forma all’esistenziale che si dà nel tempo della vita, la quale si appropria di ciò che è politico e insieme lo determina venendone inevitabilmente determinata.
È dunque un film che torna a parlare di politica, in un momento in cui gran parte degli italiani sembrano esserne diventati alieni, e lo fa nel modo più appropriato, l’unico forse possibile oggi, e cioè appunto mescolando e miscelando i due linguaggi, l’esistenziale e il politico ove per politico ovviamente non si intende la così poco stimata professione, bensì etimologicamente il suo essere servizio verso la polis e in questo a tutti noi.
Come dire che la Vita è Politica, e ce ne siamo un po’ dimenticati, per questo, in un certo senso, il suo è un film inattuale e anche nel suo ripercorrere (consueto esergo e insieme filo rosso interpretativo) una sorta di storia ‘scelta’ del cinema è fatto per porre in fondo una domanda, invece oltremodo attuale e altrettanto imbarazzante: come siamo arrivati tutti noi a questo punto (della Storia e della vita)?
Una domanda che credo si possa leggere in particolare nel discorso intorno alla violenza (nei film ma non solo) che vi è brevemente ma essenzialmente incastonato, per il quale se la violenza è solo rappresentata in maniera banalizzante e guardonistica (pensava forse anche ai social) è atto inutile e deleterio, ma se è mostrata in modo da costringerci a guardarla dentro e a guardarci dentro, visto che proprio lì si nasconde, allora può innescare un superamento, un movimento interiore che è, ovvero, può diventare catarsi.
Da Fellini a Kieslowski, da Scorsese a Demy, e anche a Moretti medesimo, ciascuno con il suo modo di realizzarlo artisticamente, fare film è alla fine fare i conti con la vita, la loro e la nostra ovviamente.
È un film dunque molto interessante, che esce per di più in un momento che definirei quanto mai opportuno, e in cui ritroviamo, dopo un certo tempo, il miglior Nanni Moretti, la cui narrazione registica è sostenuta e spesso gratificata da una recitazione di grande qualità in tutti i suoi protagonisti, dai più noti come Margherita Buy e Silvio Orlando, ai più giovani, senza contare i camei ripetuti nel corso della fellinianamente circense sfilata che chiude nel rosso intensamente predominante il film.
L’ambientazione è per così dire anch’essa confidente, è come un essere a casa che la fotografia limpida e insieme ricca di sfumature e ombre quasi spontanee enfatizza, riferendo e traslitterando i modi e i movimenti di un filmino di famiglia, così ricordandoci la qualità di Moretti di trasfigurare in professionalità quel certo snobismo pseudo-dilettantistico di cui non si priva mai.
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