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È strano quanti luoghi vicini si ignorino finché non si è spinti a visitarli per via di un obbligo che, già ormai due anni fa, imponeva di non allontanarsi dai confini del proprio comune.
Il confine di un comune ai giorni nostri è un elemento formale e un po’ vetusto, dato per scontato o quantomeno astratto: si va, si attraversa senza nemmeno farci troppo caso. Non però in quei giorni.
Fu proprio in tempo di Quaresima che scoprii un luogo in cui ero già stata in passato, forse una volta, ma a cui non avevo mai davvero prestato attenzione.
Innanzitutto è singolare il suo nome ovvero Santuario del Poggetto.
Lo dico perché qui nel ferrarese siamo in una terra piatta, al di sotto del livello del mare mentre quel poggio è ben al di sopra di 2,40 metri del terreno circostante. La modesta altura esisteva già nel XII secolo e sorge fuori dall’abitato di Sant’Egidio, in aperta campagna.
Da sempre meta antica di pellegrinaggio, è noto che nel ‘700 i cittadini ferraresi usavano recarvisi, chi a piedi chi in carrozza, in parte mossi da fede o per semplice diporto. Antiche storie documentano un terreno costituito principalmente da prati, boschi, canneto e acque stagnanti.
Il terreno fu donato alla chiesa dal Conte Uguccione di Galliera. Del suo passato potete trovare testimonianza un po’ ovunque: di una Madonna col bambino attribuita al Bastianino; di un’icona di terracotta distrutta durante un incendio appiccato dai soldati tedeschi; di quel campanile che svetta nella pianura ma che è lì solo dal 1933, non da sempre come ci piace immaginare delle cose che ci circondano.
Se volete dei motivi per andare questi potrebbero bastarvi, che siate pellegrini credenti oppure no.
Quello che, invece, voglio raccontare ha più un legame con il far esperienza della pianura che coi contenuti storici.
Ovviamente Celati coi suoi racconti che ricuciono “le apparenze disperse negli spazi vuoti” è lì al mio fianco, con le sue finzioni a cui è necessario credere. Potreste obiettare che esistono moltissimi luoghi dispersi della piatta pianura in cui l’effetto del disorientamento è ancora maggiore, in cui la visione ricercata anche da Ghirri, esplode in un incanto del tutto speciale: il Delta del Po.
Anche qui era Delta ma molto prima di Celati.
Qui siamo lungo il corso del Po morto di Primaro. Qui il fiume Po non è più fiume da secoli, è solo una traccia, un canale di bonifica. Qui le vie si chiamano Pandolfina, Sgarbata, della Quercia, Olmo. Ognuno dice di ricordarsi un paesaggio diverso ma in quel diverso c’è sempre una costante: la pianura.
Qui prima del prima c’era l’acqua, i boschi, poi qualcuno ricorda un prima che era appena “ieri” fatto di sterrato e frutteti con la vegetazione ancora incolta.
Il mio pellegrinaggio laico segue con lo sguardo i primi cinque capitelli, quelli voluti nel 1894 da don Giuseppe Zanardi, proprio lui “ebbe l’ispirazione di punteggiare la strada campestre che portava al Santuario con quindici capitelli, tanti quanti sono i Misteri del Rosario”.
Però quelli che preferisco sono collocati dopo un cancello chiuso, su uno stradone di campagna e ad un primo sguardo pensi siano irraggiungibili. Lo sono, tuttavia, solo se provieni dalla chiesa, come se il cancello dovesse tracciare un confine di territorio. Basta spostarsi poco più in là sulla destra, accanto ad un campetto da calcio incolto con la porta rovesciata a terra e lo stradone diventa aperta campagna. Lì sul sentiero erboso, dopo il cancello, trovate gli ultimi tre capitelli ovvero quelli denominati dei “cinque dolorosi”. Del primo capitello è leggibile l’iscrizione “Gesù nell’orto”. La nicchia un tempo era senz’altro affrescata ma adesso è vuota, corrosa dal tempo e dagli eventi atmosferici. Leggendo “orto” non riesco proprio a figurarmi l’indicibile agonia di Gesù nel Getsemani, manca l’immagine a cui sovrappongo una mia personale visione: serena e verzicante.
Se volete camminare e immaginarvi come un puntino all’orizzonte visto da chi ancora staziona mite nel parco del santuario, la cosa migliore è seguire uno dei tanti canali che tracciano direttrici tra le coltivazioni.
Se l’orizzonte poi vi disorienta troppo allora concentrate lo sguardo sulle “erbacce” in fiore che rischiate di calpestare impunemente, ad esempio la Bellevalia romana o il Cardo siriano.
Loro quando sono arrivate?
Al tempo di Uguccione, al tempo di don Zanardi o sono qui dall’altro ieri?
A proposito di erbacee (non erbacce), vi suggerisco, già che siete nei dintorni, di prenotare una visita ad un piccolo vivaio speciale, un giardino naturale, ricco di biodiversità che è il Vivaio Terraluna, “una piccola realtà artigianale, in cui ogni pianta viene amata, curata e coccolata come se fosse destinata al nostro giardino” scrive Carla, l’ideatrice.
E adesso che state rincasando, verso i colli magari o una città emiliana, lasciatevi alle spalle la piatta pianura che è come una ballata malinconica che non si sa davvero quando è nata o da quanto dura.
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