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Nella stagione di Prosa del Teatro Ebe Stignani di Imola è andato in scena uno spettacolo colossale, sia per tema che per messa in scena: Moby Dick alla prova del Teatro dell’Elfo, con Elio De Capitani, tratto dal testo teatrale Moby Dick – Rehearsed di Orson Welles, a sua volta tratto dal romanzo di Herman Melville.
Uno spazio scenico vasto, fin oltre le quinte, undici attori in scena, una durata di circa due ore, per raccontare le quasi ottocento pagine del romanzo di Melville, dal punto di vista di quel gigante del teatro che è Orson Welles.
Ma andiamo con ordine, a partire dalla storia.
Il folle capitano Achab salpa con la sua baleniera, il Pequod, per dare la caccia a Moby Dick, il leggendario capodoglio bianco che gli ha strappato via la gamba.
La sua ciurma si lascia piano piano trascinare dal carisma del capitano in questa crociata di vendetta, fino a stringere un patto finalizzato all’uccisione di Moby Dick. Con Achab si confrontano tutti i personaggi a bordo della nave, ognuno ha un diverso rapporto con lui, ma tutti lo temono e lo ammirano e finiscono per chinare il capo davanti alla sua follia.
Tutti tranne Starbuck, uno dei tre ufficiali di bordo, e Pip, un ragazzino pazzo. Il primo sembra quasi la voce della coscienza del capitano, sempre pronto a dire la verità, come una Cordelia Shakespeariana. Il secondo, nella sua dolce follia, occupa un posto speciale nel cuore del vecchio Achab.
Ma soprattutto a bordo del Pequod c’è Ismaele, giovane mozzo protagonista e voce narrante della vicenda, ma come tutti gli altri, vittima del carisma di Achab.
Il romanzo è lungo, intenso, pieno di parole e condito da capitoli interi di excursus etnografici, zoologici, linguistici e tecnico-marinareschi. Il viaggio del Pequod sembra eterno e l’ambiente della nave e del mare, con i suoi mostruosi e giganteschi cetacei, appare enorme. Tanto da essere stato sempre considerato irrappresentabile in un teatro.
Tuttavia Orson Welles accetta la sfida e, nel 1955, mette in scena la sua riscrittura.
È un lavoro di sintesi mirabile. Con grande fedeltà al lessico e alle frasi usate da Melville, Welles coglie i momenti più salienti della vicenda: l’incipit e l’arrivo di Ismaele, la prima comparsa di Achab, il giuramento della ciurma, l’incontro con la nave Rachele, la caduta in mare di Pip, lo scontro con Moby Dick.
Alcune linee narrative vengono tagliate, come quella dell’amicizia di Ismaele e Queequeg, per mettere al centro e far risaltare il dramma di Achab, eroe di stampo shakespeariano, dunque perfetto protagonista dell’adattamento teatrale.
È proprio tramite Shakespeare che Orson Welles trova il modo di rappresentare l’irrappresentabile. La sua versione del testo, infatti, inizia con i membri di una compagnia teatrale che provano il Re Lear.
Poi sopraggiunge il capocomico deciso a mettere in scena Moby Dick.
Ma come?
Non si può far comparire in scena un capodoglio, né una baleniera. La soluzione è la parola poetica. Con il linguaggio della metafora tutto può essere rappresentato, come la tempesta del Lear o lo spettro dell’Amleto.
Ma per farlo è necessario prima siglare un patto, tra attori e pubblico.
Così il capocomico si rivolge alla platea direttamente e usa parole prese a prestito dal prologo dell’Enrico V: “Rimediate con i vostri pensieri alle nostre imperfezioni: pensate, quando parliamo di baleniere, balene e oceani, che li state vedendo, perché saranno i vostri pensieri adesso a dover adornare il nostro palcoscenico”.
Ma il patto del capocomico non è altro che una versione meta-teatrale del patto di Achab con i marinai.
Welles, come Achab, è ossessionato da Moby Dick e come il vecchio capitano usa la carica poetica delle parole per avvincere a sé la sua ciurma, il pubblico, e trascinarlo in questo viaggio dentro la pancia del mostro.
Non a caso il grande regista ha sempre avuto fama di essere un incantatore, un Malabruno del cinema e del teatro, in grado di creare intere realtà con la parola (come nel famoso scherzo radiofonico della Guerra dei Mondi).
Nel Moby Dick – Rehearsed la sfida allo spettatore è quella di credere a tutto quello che viene detto, ben sapendo che nulla è vero (a ricordarcelo ci sono tanti elementi: l’iniziale rottura della quarta parete, la lettura delle didascalie fatta dal direttore di scena, il doppio ruolo di ognuno dei dieci attori in scena, che interpretano i membri della compagnia teatrale nelle vesti dei marinai…).
Anche la scenografia è pensata per disvelare l’inganno teatrale.
Questa, nella versione di Welles, esplicitava l’apparato scenotecnico di un teatro ottocentesco, con corde a vista e ballatoi volanti che diventavano le parti della nave Pequod.
La versione di Elio De Capitani è una messa in scena molto fedele al testo di Welles.
Parola per parola i dieci attori riportano la poesia del testo, trovando la giusta armonia tra la forza formale dei personaggi epici di Melville e il tono più semplice e a tratti incerto degli attori che seguono le direttive del loro direttore. L’interpretazione, in particolare di Giulia Viana (Pip) e di Marco Bonadei (Starbuck) e Angelo di Genio (Ismaele), sempre in bilico tra l’epico e il dimesso, è misurata ed efficace nel tratteggiare i loro personaggi, le loro paure ed emozioni.
Ma soprattutto si inserisce nella scenografia umana dei dieci attori sul palco, fatta di posizioni e soprattutto di distanze, che ora isolano un personaggio (Padre Mapple in cima alla scala, con la folla lontana sotto), ora costruiscono una relazione (quando Stubb litiga con il capitano, avvicinandosi e allontanandosi, fino a restare avvinto e vinto da Achab).
All’armonia dei movimenti si lega quella del canto: accompagnati musicalmente e diretti sul palco dal maestro Mario Arcari, anche lui nei panni di un marinaio, gli attori intrecciano le loro voci in continui shanties, i canti marinareschi profondi come il mare.
In questa ciurma di interpreti e musicisti Elio De Capitani interpreta sempre la figura del capitano, che sia il capocomico, Achab o padre Mapple.
È un personaggio in bilico, che oscilla tra momenti riflessivi e aggressivi, di accorato compianto per Pip, di comprensione per le parole di Starbuck, di folle odio per Moby Dick, ma che non smette mai per un momento di essere epico, forte, enorme.
È proprio la sua grandezza il mistero che Elio De Capitani vuole indagare.
La missione di Achab è sbagliata, non solo, è folle. Eppure tutti lo seguono, anzi, lo amano.
È una dinamica strana, che lo stesso narratore non si sa spiegare. Ismaele si chiede infatti, dopo il giuramento contro Moby Dick a cui anche lui ha partecipato: “Come avvenne che quel malvagio, grigio, vecchio e senza Dio paresse invece a noi il demone che brama sui mari della vita?”.
De Capitani suggerisce che forse è questo il meccanismo misterioso che ha portato, e porta tuttora, gli uomini sempre sul bordo del precipizio nella storia globale.
C’è come l’idea di svelare un dietro le quinte della storia umana, mostrando il viaggio di formazione di un uomo, Ismaele, alle prese con qualcosa di enorme, mostruoso e affascinante, che non è Moby Dick.
Anche la scenografia obbedisce a questo gioco di svelamento, mostrando non il palco di un teatro ottocentesco come nella versione di Welles, ma un apparato scenotecnico che oscilla tra il moderno e l’antico, fatto di scale, travi, strumenti musicali, carrelli pieni di costumi, sedie da barbiere e tavoli in metallo su ruote (quelli da veterinario).
La palette di colori oscilla intorno al blu e al fiordaliso, spezzata dal baluginio del metallo dei tavoli e delle scale, ma cercando un continuo rapporto con il grande bianco della vela maestra che viene stesa, arrotolata e mossa alle spalle degli attori.
Talvolta li copre con un velo e offre alla vista solo le loro sagome, talvolta funge da schermo di proiezione per un video che mostra la vita delle balene, e, nel finale, diventa la bocca mostruosa di Moby Dick che tutto inghiotte.
Le parole usate sono tante: sia quelle di questo articolo, sia quelle di Melville e di Welles e De Capitani.
Nel mare di metafore, allusioni, analogie dello spettacolo, sembra di veder davvero comparire all’orizzonte la balena bianca, anche se al centro del palco c’è sempre e solo la piccola figura umana, quella che ha inventato il teatro e la poesia e ha scelto di credervi.
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