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Montagne, sassi, mare e gradini sono le quattro coordinate materiche degli spettacoli di circo contemporaneo che l’Associazione Quattrox4, nella direzione artistica di Filippo Malerba, Clara Storti e Gaia Vimercati, ha programmato per la seconda edizione del Festival Fuori Asse Focus alla Triennale di Milano dal 27 al 29 gennaio.
Nonostante la breve durata, la rassegna ha nei fatti tracciato una cartografia sintomatica di un sentire comune, dentro la drammaturgia emergente del circo contemporaneo.
Prima tappa – LA MONTAGNA NELLA PALLA DI VETRO
Il nostro viaggio nella mappa di questa edizione inizia dalle montagne di WHITE OUT. La conquista dell’inutile del danzatore e coreografo Piergiorgio Milano. Immaginatevi lo spettacolo come un “film acrobatico”, una visione immersiva amplificata dalla cura sonora di Federico Dal Pozzo e dall’atmosfera intima ricreata dal light design. Gli episodi, ispirati a reali storie di alpinisti, ci trasportano in questo lungometraggio composto da momenti di estatica leggerezza alternati a situazioni di pericolo o di grave malinconia. Come i personaggi, così noi ci sentiamo librare in alto, quando gli sci sollevano la neve tutta sparsa sul palco come in uno di quei souvenir a forma di palla di vetro, così come senza peso è anche il ballo spensierato dei campeggiatori prima di compiere l’impresa. Ma questa riconciliazione con la casa-montagna passa anche per la tensione, per la faticosa riemersione dagli incubi dettati dalla paura dell’ignoto o dell’imprevisto. Come tutte le volte che la ragione si assopisce, emergono le figure mostruose dell’inconscio, così un essere con la maschera e composto di corde spunta dalla tenda degli scalatori, un guardiano onirico che per il pericolo connaturato alla scalata, esigono l’obolo del terrore della caduta. Questo diorama di emozioni contrastanti, eppure inestricabilmente connesse, si condensa nella forma di una sfera stroboscopica, masso di Sisifo cangiante che accompagna lo scalatore verso la vetta. Come lui pieno di sfumature interiori, come la sua avventura abbagliante e faticosa.
Già in questa prima tappa si intuisce la direzione della drammaturgia circense contemporanea: un coraggioso rimescolamento di linguaggi, tra danza teatro e circo non canonicamente definiti, fino a restituire allo stesso alpinismo il suo proprio gesto fatto di racconto. Accade così che la scalata verso la cima diventa, senza forzate acrobazie concettuali, metafora del processo artistico stesso: la ricerca è quell’impresa che cambia direzione, si arresta, procede instancabilmente anche verso gli abissi della conoscenza profonda del sé non accontentandosi mai della vetta raggiunta. Un atto profondamente umano, per cui ogni cuore ha le sue vertigini, ogni persona il suo percorso: come alpinisti e artisti, possiamo anche noi metterci alla ricerca, delle storie degli altri magari, per trovare un po’ della nostra stessa umanità.
Seconda tappa – I GRADINI DELL’ERRARE
I gradini sono spesso zone di passaggio, accostati dalla tradizione giudaico-cristiana a penitenze o viaggi nell’aldilà, ma possono suggerire architetture performative inedite. Dalla vetta alla hall di Triennale Milano, la scalinata su cui Guillame Martinet, performer e acrobata della compagnia Defracto per Croûte, guidato da Margot Seigneurie, co-autrice e dramaturg, porta il suo site-specific denso di humour e di interazione. Con i suoi candidi stivaletti, mutande e camicia, Guillaume non si limita a percorrere i gradini, ma ne fa dimora, fusto a cui intrecciarsi, carta da parati dentro cui confondersi, pavimento su cui riposarsi, fosso da scansare. La magia reale di questa drammaturgia dell’imprevisto è che ai gradini, così come alle montagne, è restituita la parola attraverso la giocoleria e il movimento del performer, pienamente integrato in uno spazio costruito non sull’architettura statica, ma su quella dinamica della disposizione degli spettatori.
Il pubblico, volontario o inconsapevole, è parte costitutiva di questa drammaturgia dell’imprevisto. C’è un rigore nel modo in cui la drammaturgia fa uso dell’errore: ci sono inciampi stabiliti come contrappunti precisi nella sinfonia della composizione, ma molti altri in cui il metodo sta nel modo in cui il performer reagisce all’intrusione – sempre accolta – dell’elemento afasico. Il circo contemporaneo non va, in questa lettura, concepito come rifiuto delle coordinate delle forme di giocoleria tradizionali: al contrario, la precisione assoluta del numero viene ereditata per essere tradita, cioè resa gradatamente intermittente per aprire nuove traiettorie di sviluppo. Gli elementi tipici del circo non smettono di comparire in questi orizzonti, ma vengono risignificati, potenziati da nuove possibilità: la loro caduta, così come gli scivoloni sui gradini, non sono mai lasciati al caso ma studiati con la perizia che connota questa drammaturgia dell’errore misurato.
Terza tappa – TRISTI TROPICI
Rotoliamo così verso il sud di Chiara Marchese, autrice e performer di Mavara, spettacolo intriso dell’elemento acquatico. Siciliana e migrante, divisa tra l’Italia e Parigi, come in un processo evoluzionistico invertito torna all’acqua: la buona acqua dell’espiazione, la malacqua dei fatterelli della gente di paese, l’acqua dissetante dopo le corse dell’infanzia, quella in subbuglio dei giorni di tempesta. Tornare all’acqua è l’esplorazione del passato, e in questo viaggio a ritroso verso le radici Marchese non è mai sola: accanto, sopra, sotto, dentro di lei c’è la mavara, una sorta di guaritrice a cui i malati si rivolgevano per sostegno e cure. Come l’Ariel de la Tempesta, Marchese delimita la zona del magico: i bastoncini sono il perimetro della ricerca, la corda sospesa tra i due tiranti la sua bussola acrobatica per l’esplorazione. E poi c’è questo fantoccio, che la sostiene e l’atterra, che la moltiplica e la limita, questo sì senza alcuna definizione: c’è un volto, forse due, e poi braccia, braccia e gambe indefinite, non si riescono a contare, non si riescono a discernere, e più si muovono più si annodano finché non appare chiaro che è lei, la Sicilia, la trinacria, l’antico totem a cui rivolgersi per tornare nella casa del padre. In questo viaggio verso l’acqua dei pomeriggi ventilati, mavara si fa progressivamente da parte: il vociare rumoroso si va diradando, lascia il posto a una nenia rassicurante che permette a Marchese di spogliarsi delle fattezza archetipali. Resta infine Chiara, Chiara sulla corda, Chiara nella sua Sicilia, Chiara che ha disceso i suoi gradini, Chiara in riva al mare che respira a pieni polmoni. Nel suo atto di respirare di fronte alla costa del Mediterraneo, si sente la liberazione di una goccia, un individuo, che si stacca dal mare, la propria origine, per straniarsi e raccontarcelo.
Quarta tappa – OLTRE L’ORIZZONTE NON RIMANE NIENTE
Totalmente privo di acqua – e quindi della vita per come la conosciamo noi – è, invece, il mondo distopico di 2984, spettacolo di Alessandro Maida presentato in prima assoluta per quest’occasione. Prodotto dalla Compagnia MagdaClan, lo spettacolo ha il suo elemento distintivo nell’aridità, nella secchezza: è il post-antropocene e del mondo non è rimasta che una superficie rocciosa, lunare, abitata da un solo uomo. 2984 è distopia ma anche ucronia: sintetizza futuro visibile e inimmaginabile a un passato vicino e remoto. Ma cosa ci definisce protagonisti della storia dell’umanità? I momenti rivoluzionari, le scoperte dirompenti, o le inezie che con cui riempiamo i giorni di questo presente inconsistente? Sono gli oggetti consueti qui a riprendersi la parola, dentro un orizzonte semantico dettato dalla condizione naturale della secchezza: lì oltre l’orizzonte del mare, alla fine del tempo, una carriola sopperisce ai bisogni del dormire, ci si lava con la polvere. Il Mac, antonomasia della black box attrattivo-tecnologica, epiteto del capitalismo produttivo e dell’intrattenimento delle non-cose, diventa invece la cosa più orrorifica che si possa immaginare: lo specchio che riflette l’Io depotenziato del narcisismo primigenio. Non è il mondo sommerso, ma quello rinvenuto dalle rocce, esposto a temperature roventi: nell’atmosfera primordiale e torrida, c’è il silenzio giusto per ritornare alla dimensione simbolico-rituale, pregando ai piedi di una piramide dorata incastonata nella pietra, l’unica, eterna abitante della terra.
Lì dove non rimane niente che tipo di relazione si può immaginare? Forse quella con la propria coscienza di homo faber, della tracotanza dell’umanità che gioca a fare dio e a creare fratelli bionici. Il vero deus ex machina non è forse il tecnico delle luci che per tutto lo spettacolo ha spostato il proiettore, seguendo il futuro uomo-delle-pietre in ogni suo passo calibrando, con i suoi cambi colore e posizione, l’atmosfera dentro e fuori la scena? In un breve sguardo traggono l’epifania sul progressivo disfacimento della terra, annunciato dal rumore di massi cadenti, e con essa dell’umanità (o ciò che ne rimane).
LEGENDA
- Simboli antichi che ci traghettano nel futuro: l’eterno ritorno. La mavara, i gradini, l’ultima immagine di 2984 – che riecheggia la pietà michelangeliana – riferimenti biblici, archetipici, che pescano nell’inconscio collettivo e pulsante.
- Drammaturgie flessibili. La scrittura nel circo contemporaneo è precisa: parte da visioni sinestetiche in cui la teoria è connaturata alla sensazione, e si approfondisce in una narrazione parabolica. Ogni gesto è giustificato e motivato dalle esigenze del racconto, anche a costo di sacrificarne la spettacolarità acrobatica.
- Si tratti di flessibilità, di ibridazione, di sperimentazione, fosse persino confusione, non esiste certo un circo di prosa, questo è circo di storie, capace di impiegare tutti i mezzi necessari a raccontarle. Ma fare la spettrografia di uno spettacolo per individuare le percentuali di un’arte performativa piuttosto che un’altra è un dannoso affare a cui pare che i burocrati si dilettino.
- Così, scoperchiando le categorie, “circense” non ci basta, ma neanche performer ci accontenta. Questa geografia ibrida è fisica ma anche umana. Così Piergiorgio Milano è uno scalatore e danzatore, Martinet è giocoliere e anima di luogo, Marchese è acrobata e mavara e, infine, Maida è un po’ circense e un po’ attore. Questo è ciò che sono oggi, in e per questi momenti del proprio percorso – della propria scalata, meglio, artistica.
Le mappe servono a indicare, non a scegliere, le proprie direzioni. Ciò che sappiamo con certezza è che il circo contemporaneo sta esplorando: verso le culture popolari, le mitologie, i patrimoni, facendosi archivio del presente. C’è in atto un processo mitopoietico necessario all’io per ristabilirsi dentro, fuori, sopra, sotto, ai margini della dimensione collettiva, a sua volta messa in crisi da queste drammaturgie erranti capaci di mettere a dura prova antropo- e geo-centrismo. Il Festival è stata una vera e propria Operetta da intendersi, secondo la lezione leopardiana, come intelligente uso del comico per garantire effetti di straniamento nella vasta gamma che, dal burlesco alla fiaba popolare, arriva a toccare picchi di incontenibile gioia e presagi di tragico disfacimento.
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EMANUELE REGI e LUDOVICA TAURISANO
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