Dentro al pre-giudizio: tre casi teatrali

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Le cinque rose di Jennifer - ph Mario Spada

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Nei giorni scorsi ho fatto tappa due volte al Teatro Arena del Sole di Bologna per alcuni spettacoli di cui s’era tanto parlato: Un jour nouveau e Birthday Party, coreografie rispettivamente di Rachid Ouramdane e Angelin Preljocaj, Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello, con la regia di Gabriele Russo e Brevi interviste con uomini schifosi, dalla raccolta di racconti di David Foster Wallace, con Lino Musella e Paolo Mazzarelli.

Fil rouge affatto evidente: la divergenza dal canone, dalla norma morale e sociale comunemente accettata, o comunque percepita.

La questione, vecchia di secoli: come l’arte può (se e quando lo vuole) tradurre e problematizzare il divario tra ciò che è considerato lecito / legittimo / encomiabile / apprezzabile e cosa no.

Nel primo caso: mettere al cuore dell’accadimento coreutico un folto gruppo di corpi anziani, con buona pace dell’idea romantica di danza incarnata da figure esili e prestanti, leggere e soavi che si protendono verso il cielo.

Nel secondo caso: raccontare la storia di un travestito.

Nel terzo caso, nomen omen, presentare le “avventure” di uomini: schifosi nel loro rapporto con le donne.

Si sa: nell’arte (della scena et ultra) quel che conta è il come, al di là del cosa. Altrimenti una canzone di Toto Cutugno varrebbe una di Fabrizio De André e le mie poesiole adolescenziali meriterebbero attenzione quanto un sonetto di Francesco Petrarca, perché sempre d’amore abbiam trattato. E invece.

Il come, dunque.

Come, soprattutto, l’accadimento scenico apra a qualche cosa di altro (something third, direbbero i grotowskiani) che recuperi, al di là della forma abitata, la radice etimologica di teatro: luogo di sguardi e di visioni.

Altrimenti trattare temi “scomodi” è illustrazione, predica, didascalia, se non opportunismo.

E non serve a nessuno.

Il trittico di opere incontrate a Bologna ha avuto, in tal senso, esiti affatto difformi.

 

Birthday Party – ph Christophe Bernard

 

Del dittico di danza Over Dance (presentato in prima nazionale) a causa del mancato arrivo a Bologna di uno degli interpreti per problemi di scioperi aerei è andata in scena solamente la creazione di Preljocaj.

Protagoniste otto persone (tra i 65 e i 79 anni, come programmaticamente esplicitato in bella vista sui materiali di sala): tutti professionisti del movimento, provenienti da diversi Paesi.

Ironia sull’età (ad esempio evidenziando la fatica che certi passaggi comportavano, oppure facendo agghindare gli interpreti “all’americana” e lanciandoli in un dinamico quanto improbabile balletto) e passaggi emotivamente connotati e didascalicamente realizzati (con gli interpreti che, ad esempio, “mimano” le parole di un qualche folksinger americano che con tono compreso ci sussurra “I need you”, “I’ll hold you”, “We will lie down”).

Paradossalmente, ci è parso, la mancata trasduzione poetica della specificità e della preziosità del corpo-mente anziano in scena ha fatto sì che sia balzata agli occhi più la parte “mancante” (sincroni imprecisi, duetti non abbastanza fluidi, passaggi non molto agili), in una dinamica abilista che è proprio quello che in teoria un progetto come questo voleva (forse) problematizzare.

Riprova di ciò, il momento degli applausi.

Secondo la vetusta consuetudine di avanzare in proscenio a ricevere l’applauso del pubblico in diverse formazioni ma anche un interprete alla volta (con relativi riscontri sonori affatto difformi a seconda del grado di apprezzamento), la persona che ha ricevuto più approvazione personale è stata Mario Barzaghi, protagonista dell’unica scena davvero memorabile dello spettacolo.

Maestro di kathakali, ne ha eseguito un frammento che la prassi compositiva di Preljocaj ha inserito in un’atmosfera rarefatta, minimale e possente.

Si sa: solitamente a teatro si applaudono “convintamente” soprattutto i bravi, i bambini, gli anziani e le persone con disabilità.

Cosa abbiamo, dunque, applaudito?

Più esattamente: cosa ha spostato, nelle nostre categorie etiche ed estetiche, questa operazione che, a occhio e croce, sarà costata come casa mia?

 

Le cinque rose di Jennifer – ph Mario Spada

 

Di tutt’altra forza rivoluzionaria è stato, nella piccola sala seminterrata del teatro, l’allestimento che Gabriele Russo ha fatto del testo-cult di Annibale Rucello Le cinque rose di Jennifer.

Un minuscolo e maestoso spettacolo che, per parte nostra, sta dalle parti del capolavoro.

In scena Daniele Russo e Sergio Del Prete, perfettamente complementari: torrenti di parole e afasia, frontalità e nascondimento, piena luce e penombra.

Estroflessione e introflessione: letteralmente respira, la dinamica registica (o, meglio, coreografica, dunque di composizione di corpi nello spazio: fisici, sonori, materici, verbali), a dar luogo a un accadimento etimologicamente commovente, che ci fa cioè muovere insieme all’affannato agitarsi di questa Figura dolente e ilare, malinconica e sognante.

E del suo tagliente doppio.

Vien subito da pensare a Samuel Beckett, ovviamente, ad Aspettando Godot ma anche a Giorni felici.

E vien da ringraziare: per la ridda di segni che ci inonda e travolge, per la tovaglia che diventa vestaglia, per la bomboletta spray con cui Jennifer intride il mazzo di rose di plastica col profumo dolciastro che arriva a noi e ci ricorda che il teatro è un fatto di corpi, per l’amicizia istantanea che quest’opera sa creare nel farci tutti simili nelle fragilità, nelle contraddizioni, negli umori che ballano, nei desideri che muovono e si muovono.

Per i passaggi al rallentatore in proscenio, a dichiarare, brechtianamente, la distanza e la finzione.

Meglio: il linguaggio.

Ancora una volta -e come ogni volta- è questione di linguaggio: Cutugno non è De André, proprio per niente.

E poi ritmo, controscene, invenzioni con niente. Ironia e poesia. Lingua piegata e masticata, canzoni pop degli anni ruggenti, Patty Pravo e Mina, cronaca nera e dramma personale (non sveliamo l’amaro finale, a favore di chi si trovasse a leggere queste righe e non avesse mai visto un allestimento di questo testo).

Qui, l’eventuale pre-giudizio sulla marginale umanità rappresentata si affronta e supera nel segno dell’antica e sempre nuova arte del teatro.

Del linguaggio della scena che, risuonando in noi, ci fa (ri)scoprire esseri organicamente, radicalmente linguistici.

Leo de Berardinis, azzardiamo, è molto vicino.

 

Brevi interviste con uomini schifosi – ph Marco Ghidelli

 

A proposito di linguaggio, e di segni: ha un approccio strutturalista, l’allestimento di Daniel Veronese di Brevi interviste con uomini schifosi.

I due interpreti, “con quella pacata amara indifferenza dell’attore che conosce i polli della sua platea”, come direbbe Ennio Flaiano, abitano uno spazio in piena nudità.

In una struttura a capitoli, con tanto di titoli proiettati sul fondale, si alternano figure abiette, laide o anche solo tristanzuole, tratteggiate con precisione e una buona dose di ironia, che il pubblico in sala mostra di apprezzare.

Copione spesso in mano (ma sembra che non leggano, pare più un espediente, ancora una volta, distanziante) Musella e Mazzarelli interpretano alternativamente l’uomo e la donna -o, più esattamente e basicamente, il maschio e la femmina- in un manipolo di miniature sempre in bilico tra ferocia reale e mostruosità posticcia.

Si vira senza posa ora in una direzione ora nell’altra, in questo asciutto meccanismo scenico, grazie all’indubbia maestria dei due interpreti, al loro minimale istrionismo.

Questi esercizi di stile sono agiti in un bianco non-luogo che a noi ha ricordato una sala operatoria, in un teatro che vorrebbe forse vivisezionare le categorie morali di ciascuno, tra prediche e incapacità di ascolto, invalidità usate per sedurre, risate laide, ammicchi e esibite sbruffonaggini.

La lista (da vertigine, direbbe Umberto Eco) dà ritmo sincopato alla serie di duelli psico-emotivi, agiti o raccontati.

La piena ostensione delle miserie umane dei protagonisti corrisponde alla mancanza di qualsivoglia nascondimento in scena, che si tratti di spostare un tavolo, bere un bicchier d’acqua o togliersi i calzini prima di entrare nel grande quadrato bianco: la coincidenza di significanti e significati dà al dispositivo una qualità geometricamente programmatica.

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Che bello quando il teatro aiuta ad accorgersi: di come funzioniamo nel mondo. Di come funziona la lingua che si abita e incontra, in scena et ultra.

Altrimenti è intrattenimento.

E non serve a nessuno.

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