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Ci sono voluti otto anni ma alla fine il film Anton Cechov del cineasta francese Réne Fèret, il suo ultimo prima della morte in quello stesso 2015, ha trovato anche un distributore italiano che ne apprezzasse la qualità sottile (come lo spirito francese che lo contraddistingue) e lo offrisse dal gennaio di quest’anno al pubblico del Bel Paese.
Forse perché è un film in fondo fuori dal canone, nel senso che non corrisponde e non si inquadra nel consueto modo, molto di moda peraltro, del biopic con cui sembra presentarsi ed insieme, sconfinando con sintassi del pari eterodosse nei territori della narrazione cinematografica, vi trasporta un senso di realtà che talora sconcerta.
Infatti non è tanto, come siamo invitati a pensare nell’immediato, una storia di vita vera, della vita del grande drammaturgo russo, pur suo oggetto dichiarato, bensì è una sorta di sguardo, una inquadratura parziale e tangente della metafisica, o dell’estetica se vogliamo, di quella vita, una lettura delicata e attenta della sua trasfigurazione artistica.
È, in sostanza, un intercettare il riflesso che si è man mano proiettato sull’arte e sulla scrittura di Cechov a partire dai suoi momenti e moventi esistenziali, che cercano e trovano nel suo grande teatro una felice dimensione universale.
In un certo senso questo film ci rapisce dalla dimensione dello sguardo esterno ed esteriore per precipitarci dalla parte di Anton Cechov, dalla parte del suo sguardo attraverso il quale vedere non tanto lui, quanto noi stessi.
Giocato in buona parte sulle sfumature dell’oscurità, cui la bellissima fotografia offre una appropriata sintassi, all’interno della quale luminosità quasi sempre fuori quadro, o fuori scena se preferiamo, fanno percepire svolte e peripezie che attendono solo di essere portate al di sopra di un tramonto di vita che tutto sembra travolgere.
Una narrazione che comincia in corso d’opera, in un tratto ben delineato della vita dello scrittore, quasi ricondotta all’apparenza delle tradizionali tre unità aristoteliche, e si interrompe prima della fine, in un montaggio che taglia ciò che non è essenziale e fa risaltare ciò che invece compone la sostanza di una visione del mondo all’interno di una condizione esistenziale singolare che si fa, man mano, più generale umana condizione.
In fondo un omaggio cinematografico, che ha i tratti salienti del saggio interpretativo, non alla vita di Cechov ma bensì alla sua scrittura di cui quasi disegna le linee essenziali come in una sagoma che ne preannuncia la piena figuratività.
Un dipingere nelle inquadrature la malinconia di una parola che vuole farsi sentimento condiviso, uscendo dalla sua limitante storicità per accedere alla contingenza senza tempo di un palcoscenico che l’aspetta; il prima del nostro dopo che è l’oggi.
Potrà infatti capitare io credo, rivedendo una delle sue pièce più famose nelle molte e diverse versioni che circolano nel mondo, di vedersi paradossalmente risintonizzati su certe tonalità di questo film, su certe sue scoperte e affermazioni, ad esempio sul ruolo dell’attore e della sua recitazione, forse non immediatamente colte.
Un film di qualità per ideazione, sceneggiatura e regia, arricchito da una recitazione mai sopra le righe, capace di transitare con delicatezza e quasi ingenua immediatezza le linee essenziali che la nostra interpretazione (in ogni possibile senso) della e nella vita ci richiede.
Un film anche rischioso ma che per fortuna non è passato inosservato, pur nel colpevole ritardo imposto a noi dalla farraginosa distribuzione nazionale.
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