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La storia della psichiatria occidentale è segnata da lotte fratricide e serpi in seno. La stessa nascita della psicoanalisi è costellata di epurazioni volte ad annientare gli eretici che rischiavano di allontanare il pensiero dalla Dottrina. Le aperture verso orizzonti inesplorati in un attimo potevano essere tacciate di proiezioni di conflittualità irrisolte dell’analista pioniere, e quindi liquidate come problemi personali trasformati in teoria. Carl Gustav Jung? Misticheggiante. Alfred Adler? Eccessivamente attento al proletariato. Troppo distratti dalla religione, o dal sociale, per impersonare l’impassibile schermo bianco necessario in seduta. Dopo pochi mesi si ritrovarono fuori dalla neonata Società Psicoanalitica.
Ma chi la fa l’aspetti: cinquant’anni dopo la psicologia comportamentale e sperimentale statunitense ha accusato l’analisi in toto di non essere sufficientemente evidence based, perché elaborata a partire dall’incontro con i pazienti senza passare dall’ambiente del laboratorio, asettico e produttore di dati obiettivi, non sporcati dalle variabili dell’esperienza. Sempre con grande fatica corpi, menti, posizionamenti produttori di dissonanza dal discorso dominante hanno trovato la possibilità di generare sapere, allargando il campo semantico di concetti apparentemente granitici come quelli di salute e malattia.
Per capire meglio le dinamiche che decidono come alcune voci riescano a diventare discorsi sulla conoscenza e come altre siano silenziate nel delirio della follia, proviamo quindi ad analizzare qualche caso clinico.
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Caso 1: la Donna Isterica
C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, nel quale i medici facevano un gran parlare di quello stato, attribuito al solo genere femminile, denominato isteria (dal tardo latino histerëcus, cioè utero). Già Platone ne identificò la causa nei viaggi dell’organo riproduttivo nel corpo della donna, affermando che quando non stimolato dalla gravidanza – fine unico e ultimo dell’organismo dotato di ovuli, come un animale non nutrito soleva muoversi alla ricerca di cibo, producendo schiacciamenti di altri organi e sintomatologie conseguenti. Fin dai primordi le isteriche sono state considerate creature fragili, di emotività incontrollata, lamentanti dolori immaginari, soggette a paralisi, amnesie, somatizzazioni, emorragie e a tutta una serie di manifestazioni fisiche e motorie con cause non individuabili a livello anatomico.
Dopo molti secoli, in epoca vittoriana, l’isteria faceva ancora da padrona nelle elucubrazioni del mondo sanitario, portando, a onor del vero, alla scoperta e concettualizzazione di due strumenti sensazionali per il progresso dell’umanità: il vibratore e la stessa psicoanalisi.
The Granville’s Hammer fu inventato dall’omonimo dottore di metà 800, stanco di praticare terapie manuali di massaggio della zona vulvare finalizzate a ottenere un parossismo utile a riportare il benedetto utero in posizione. Ebbe la folgorazione di provare a produrre lo stesso effetto, nel corpo della donna, con uno strumento meccanico, votato a preservare al contempo il polso dello scienziato da fastidiose infiammazioni (credete sia uno scherzo? Non lo è, e per rendere meglio digeribile questa storia, con apparente leggerezza, qualcuno ne ha fatto pure un film: Hysteria).
Più o meno nello stesso periodo, dall’incontro tra Sigmund Freud e Anna O., la più famosa donna attribuita isterica della storia, nacque la terapia catartica, che lasciava a riposo marchingegni e ammennicoli perché basata esclusivamente sulla parola. Fu infatti osservando le donne isteriche ricoverate nella clinica francese de La Salpetriere che il padre della psicoanalisi ebbe le prime fondamentali intuizioni che condussero alla sistematizzazione della psicologia del profondo, tramite un processo di attribuzione di significato a segni corporei fino ad allora liquidati come esagerate finzioni.
Freud, nell’interpretare i sintomi come atti di comunicazione, scorse nelle manifestazioni isteriche l’espressione di desideri e conflittualità rimosse, particolarmente presenti nel genere femminile in quanto maggiormente soggetto a repressione sociale della sessualità. Timidamente iniziava a far capolino l’attenzione sulla responsabilità culturale nella determinazione di alcune patologie, e cominciava ad andare meglio dai tempi delle escursioni dell’utero parassita e cannibale o dell’uso del Martello di Granville, ma si trattava pur sempre del rapporto tra un soggetto maschio psichiatra che trattava un oggetto corpo femminile inequivocabilmente malato.
Nel contesto della psicologia europea, incredibilmente, un ulteriore scarto degno di nota lo produsse Jaques Lacan, il mio aminemico per eccellenza. Per lo psicoanalista francese era proprio l’agire il sintomo isterico che poteva spostare la donna dalla posizione di oggetto passivo del sapere medico alla posizione di soggetto agente, che desidera desiderare, dotato di un’autonomia e di una collocazione non del tutto interna alla patologia.
Attenzione però: questo puro desiderare è senza oggetto (nell’isterica la bramosia è senza fondo e senza contenuto) e rimane fallodipendente, mantenendo la femmina in una posizione di superficiale e sterile identificazione con i desideri dell’altro (maschio). La colpa è ben più grave, ed è quella insuperabile dell’assenza del pene, che condanna le donne ad una vita monca di spasmodica ricerca di sostituzioni di qualcosa che non ci sarà mai, simbolicamente rappresentato dai desideri del maschio, o dal diventare desiderio per il maschio.
Sarà necessario qualche tempo ancora, una cosuccia chiamata femminismo e una approfondita revisione critica da parte delle psicoanaliste radicali di metà Novecento per riconoscere l’indipendenza degli uteri nella produzione del sapere.
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Caso 2: l’Uomo Nero
Studiamo ora un altro caso, appellandoci allo psichiatra, scrittore e attivista martinicano Franz Fanon, che nella seconda metà del secolo scorso molto ha indagato la questione della salute mentale legata ai processi del colonialismo e della colonialità. A partire dalla sua esperienza di intellettuale nero in un contesto bianco, denunciò il fallimento delle teorie e delle categorie occidentali nella comprensione dello sviluppo delle patologie psichiatriche delle popolazioni colonizzate (soprattutto africane). Dal suo pensiero prese forma la nozione di epistemicidio, cioè la necessità di coscientizzarsi su come i saperi locali e situati, compresi quelli della cura, avessero finito per soccombere o alterarsi di fronte all’imperialismo delle conoscenze delle maggioranze (bianche), usate per coprire e normalizzare una posizione razzista di dominio e sopraffazione.
Nel modello di Fanon, che tiene conto della sociogenesi dell’inferiorità razziale, la psiche razializzata non può essere analizzata solo con i classici affondi analitici nella storia individuale e familiare, perché lo sviluppo e la trattazione dei sintomi non possono essere considerati avulsi dalla determinazione storica della sofferenza legata alla schiavitù, matrice di produzione di corpi senza mondo.
La nerezza diviene non un tratto fenotipico, ma l’eredità storica e psichica dello schiavismo, e il razzismo viene visto come riattualizzazione della figura dello schiavo nella contemporaneità. Fanon dimostra come sia più opportuno parlare di persone razializzate, piuttosto che di razze: ben lontano dal puro dato biologico pigmentazione delle pelle, nerezza e bianchezza sono categorie non naturali ma culturali, portatrici di enormi significati psichici e di opposte eredità.
Per lungo tempo l’interpretazione più superficiale di tale approccio è stata quella della psichiatria degli altri, che ritiene che per capire e guarire basti tener conto delle differenze culturali, ma questo paradigma ci rende in realtà evidente l’opposto, cioè come ogni psichiatria, compresa quella occidentale, sia in realtà un’etnopsichiatria. In tutto il globo terracqueo le patologie, le classificazioni diagnostiche, gli strumenti terapeutici e i modelli di cura vengono definiti sulla base di rapporti di potere appartenenti a un preciso contesto storico e sociale, che, quando spinto dall’unico desiderio di preservare se stesso, si arroga il diritto di decidere chi porre fuori dai confini della nozione situata per eccellenza, quella di salute.
Per chi si interrogasse sugli effetti a lungo termine di queste faccende antiche, bisogna sapere che, nel vicino 2013, i ricercatori della Emory University School of Medicine di Atlanta hanno dimostrato che le sensazioni che derivano dall’annusare un odore possono tramandarsi di generazione in generazione. Hanno osservato come i figli e i nipoti di topi ai quali erano state somministrate scariche elettriche in un ambiente profumato di fiori di ciliegio, mostrassero gli stessi comportamenti di avversione e attivazione fisiologica in presenza dell’odore di fiori pur non avendo mai sperimentato lo stimolo avversivo dell’elettricità.
Questo triste racconto di laboratorio ci parla di memoria intergenerazionale, e di come i traumi del passato possano determinare stati affettivi psicofisici, legati a memorie inconsce, nei figli, nelle figlie e nei nipoti delle isteriche, degli schiavi, dei coloni, in maniera del tutto indipendente dal fatto di aver saggiato l’esperienza traumatologica sulla propria pelle.
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Caso 3: la privatizzazione neoliberista della salute mentale
A proposito di fiori, guardando un po’ nel nostro giardino, cioè la società capitalista d’Occidente, pare che la salute mentale venga trattata come fatto imprescindibilmente naturale e individuale. Ma che succederebbe se, sulla scia dell’esperimento del gruppo di ricerca di Atlanta, provassimo piuttosto a pensarla come questione collettiva, politica e legata alla storia dei popoli?
Sempre Lacan ha teorizzato una figura che può venirci in aiuto per allargare gli orizzonti, quella del Grande Altro, che interviene come simbolico nel rendere possibile la convivenza tra diversi soggetti, sovrapponendosi alla persona che sta di fronte a noi tutte le volte che facciamo esperienza dell’alterità. Ricorrere a questo terzo ci permette di approcciare il reale, perché la sua presenza lo rapporta a ciò che già conosciamo, e rende maggiormente accessibile l’ignoto integrandolo a ciò che lo precede. È il luogo della cultura che determina le regole della relazione.
Tipologie di Grande Altro che possiamo toccare con mano sono vestirsi di nero per un funerale, le risate preregistrate nei programmi comedy, la mano davanti alla bocca in occasione di uno starnuto, il prego dopo un grazie, le ideologie politiche e religiose. Tutto questo ci in-forma senza consapevolezza, difatti dice Lacan che proprio l’inconscio è il discorso dell’Altro: il Grande Altro è il luogo delle parole che hanno già significanti, che in un qualche modo castrano i nostri desideri primari modellandoci e guidandoci nella direzione della convivenza civile – pensate a cosa succederebbe se ridessimo per le commemorazioni funebri piuttosto che per le serie tv.
Secondo il filosofo e sociologo Slavoj Žižek il Grande Altro è però anche il consumatore della propaganda, una sorta di figura virtuale alla quale ci si riferisce come garante della plausibilità di discorsi ai quali nessun individuo reale sarebbe disposto a credere, ma massimamente importanti per mantenere lo status quo. Questo accade, ad esempio, quando continuiamo a sostenere governi che dichiarano di lottare per i diritti dei lavoratori mentre tassi di interesse e inflazioni decise da quelle stesse istituzioni erodono retribuzioni già esigue, o quando reiteriamo azioni prive di significato e possibilità applicative (pensiamo alla profusione di sondaggi e valutazioni alle quali rispondiamo ogni giorno), volte a impressionare questa entità più che a ottenere un promesso effetto concreto di miglioramento. Tutte le volte che vince paura del cambiamento accettiamo di uscire con il Grande Altro per un caffè.
Nel caso della malattia mentale e dei discorsi sulla salute, sentiamo il sussurro neoliberista del Grande Altro quando continuiamo a raccontarci di vivere nel migliore dei sistemi possibili, delegando il fatto di provare stress o malessere psicologico alla sola responsabilità delle persone nel non essere sufficientemente adattate. È solo colpevolizzando gli individui (basti pensare a quella sorta di lassismo morale che attribuiamo a chi sperimenta dipendenza da alcol o sostanze psicoattive, o a patologie come l’HIV) che possiamo sorvolare con grazia sulle cause reali, strutturali, profonde e collettive che mantengono le patologie in essere.
In Occidente, i corpi e le menti indocili, sono state rinchiuse da tempi immemori all’interno di quelle che il sociologo canadese Erving Goffman ha chiamato istituzioni totali, come ospedali psichiatrici, carceri, conventi, piantagioni, lager, luoghi caratterizzati da impossibilità di attivare scambi sociali, isolamento dall’esterno, sistemica cancellazione della propria emersione come soggetti, controllo centralizzato. Come se togliere di mezzo la parte incancrenita potesse permettere la guarigione di tutto l’organismo.
Detto fra noi, queste strategie non sembrano aver portato miglioramenti così evidenti. La diffusione sempre maggiore della sofferenza psichica nelle società capitaliste dovrebbe farci pensare che il problema si situi da un’altra parte, che sia il neoliberismo stesso ad essere decisamente disfunzionale, ma pare che puntare il dito contro le perversioni di singoli mostri continui a essere molto più economico che pensare la rivoluzione.
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Una proposta eco-bio-psico-sociale: la salutogenesi
In ambito occidentale solamente negli anni ‘80 la salute ha iniziato a essere considerata come un costrutto multidimensionale, esito dell’interazione tra variabili biologiche, psicologiche, familiari, sociali, spirituali e storiche, permettendo il salto dal modello bio-medico al modello eco-bio-psico-sociale. Il cambio di paradigma ha focalizzato l’attenzione su quesiti diversi dal come si fa a guarire dalle malattie individuali del corpo, quali, ad esempio, come ci si mantiene in uno stato collettivo di benessere.
Salutogenesi è un termine coniato dal sociologo israeliano americano Aaron Antonovsky, che ci permette di guardare il bicchiere mezzo pieno ponendo, nell’eziopatogenesi dei malanni, maggiore attenzione al contesto, e concependo salute e malattia come stati normalmente presenti e facenti parte, in equilibrio dinamico, dell’essere in vita. Il modello patogenetico, che procede per stati discreti (e oramai dovremmo aver imparato che il sistema binario è il male) considera la salute come assenza di malattia, concentrandosi su azioni come prevenzione, insorgenza e cura delle patologie. L’approccio salutogenico pone invece la persona su un costante continuum tra i due poli, cercando di individuare quali caratteristiche si comportano come fattori utili a collocarsi verso il perno della salute.
Esempi di questi attributi sono le risorse generali di resistenza, che possono essere interne – fattori biologici o struttura di personalità, o esterne – contesto sociale, servizi e relazioni. Il focus sulle risorse non riguarda solo la loro presenza o assenza, ma anche le condizioni che permettono agli individui di poterle utilizzare, come il senso di coerenza, cioè la capacità di percepire gli avvenimenti come comprensibili e governabili, e quindi di potervi reagire.
È proprio sulla nozione di salutogenesi che si basano tutti i più recenti modelli di welfare culturale, che reputano la promozione della salute pratica collettiva che esce dall’isolamento nelle istituzioni sanitarie per passare attraverso l’accessibilità e la partecipazione a eventi artistici, partendo dalla trasformazione estetica dei luoghi della cura. Per intenderci: per gli avanguardisti di tali paradigmi andare a teatro o al museo diventa, per una persona depressa, un’alternativa concreta alla terapia serotoninica farmacologica, o, al pari della somministrazione orale di levodopa, fattore di prevenzione per la malattia di Parkinson, e l’organizzatore culturale viene parificato al medico.
In questa disamina sulle narrative della malattia, focalizzarci su come si mantiene la salute in contesto comunitario piuttosto che su come si cura la malattia in ospedale potrebbe sembrare una piccola cosa, un lieve cambiamento di prospettiva. Proviamo a pensare, però, alla sorte della donna, o a quella di chi ha la pelle nera, se avessimo preso in considerazione, per spiegarne la sofferenza, non l’utero vagante o il pensiero magico tribale ma una certa impossibilità di governare la propria esistenza in una società incapace di lasciare lo spazio necessario per costruire punti di riferimento, ancoraggi, narrazioni autoprodotte e autorappresentazioni. O a come sarebbe diverso il destino di qualsiasi persona con malattia, se come comunità ci impegnassimo a offrire cura, invece di produrre azioni di isolamento e decolletivizzazione per chi non può partecipare alla produzione forsennata da sacrificare sull’altare dell’Altro, affinché mantenga tutto come è.
Quanti corpi e menti inutili, ma molto amati, avremmo potuto salvare. Scommetto che ognun* di noi ne potrebbe identificare almeno una o due tra quelle che ha più vicino al cuore, e per qualche paziente residuale, se partiamo subito, forse rimane ancora qualche possibilità.
Dai dai, non perdiamoci d’animo. Per un brindisi inaugurale alla speranza delle piccole cose decliniamo l’invito per quel caffè e facciamoci bastare i calici che abbiamo, anche se pieni a metà.
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Letture
Chimamanda Ngozi Adichie (2015), Americanah, Giulio Einaudi Editore
Franz Fanon (2020), Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, Ombrecorte
Visioni
Johann Korec
Elijah
Marc Moret
Masao Obata
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