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Inutile pensare a chi moriva ieri quando lo sterminio è in pieno corso.
Lo spazio è come un numero, per chi si vuole perdere,
per chi rinuncia al filo del discorso che è lo stesso filo che ti impicca.
Il corpo si è dato alla gola che raschia ormai nell’intimo.
Il fianco duole ancora per una nuova ed eterna alleanza.
Qui non si racconta la storiella della buona notte,
qui si porge l’altro fianco.
Che non è la guancia di chi ha la faccia come il culo sotto.
Il fianco non significa se non è trafitto.
Con la gola secca e il corpo in avaria si emette un altro suono.
Fine delle parole.
Inizio della danza macabra.
[ Antonio Rezza ]
Hybris s. f. – Traslitterazione del gr. ὕβρις, che significa genericam. «insolenza, tracotanza», e nella cultura greca antica è anche personificazione della prevaricazione dell’uomo contro il volere divino: è l’orgoglio che, derivato dalla propria potenza o fortuna, si manifesta con un atteggiamento di ostinata sopravvalutazione delle proprie forze, e come tale viene punito dagli déi direttamente o attraverso la condanna delle istituzioni terrene (per es., la h. di Prometeo); personificazione della rivolta contro l’ordine stabilito dagli déi o, più semplicemente, dell’orgogliosa coscienza di sé.
Ecc. ecc.
E fin qui il Treccani per gli amanti delle etimologie. Antonio Rezza e Flavia Mastrella, corsari della scena e indigeni della sovversione hanno deciso di battezzare così la loro nuova creazione, andata in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 15 al 27 novembre scorsi, dopo aver debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto 2022.
Un inno alla deflagrazione di tutte le forme, una performance monstre dalla quale si esce tramortiti, privi di appigli, doverosamente fatti a pezzi. D’altronde, chi va a vedere uno “spettacolo” di RezzaMastrella sa (o dovrebbe sapere) che farà esperienza di una esuberanza molto particolare, per dirla con Ceronetti: “la gioia di volare come impegno di sfracellarsi”!
Che cosa vediamo sul palco? Innanzitutto, prima di vedere sentiamo un coro intonare una sorta di litania sciamanica o una nenia funebre. Alcune presenze sono già in scena, delle altre percepiamo solo le ondeggianti voci metalliche. Il colore dominante è il vermiglio della morte rossa. La danza macabra sta per iniziare!
Buio. Nenia. Bussano alla porta. Ma non è una porta. Le tenebre cominciano a diradarsi e intravediamo un uomo sdraiato, incorniciato dalla propria bara. È qualcuno che neanche da morto riesce a riposare. La polemica non dà tregua, l’essere ormai ridotto alla sua negazione è incapace di mettere un freno all’innata rivolta. La rivolta oltrepassa l’essere. Lo seppellisce.
“Sarà!”
E la luce fu!
Un uomo apre e chiude una porta freneticamente. I connoisseur potranno risalire all’ormai lontano 1997, anno del micrometraggio Porte: solo che qui la porta che costituisce il fulcro dell’habitat di Flavia Mastrella ha perso completamento la sua funzione abituale. È scardinata e si apre sul nulla. Viene sollevata da terra con disinvoltura e, posizionata in diversi punti dello spazio scenico, diventa varco di accesso alla realtà decisa all’uopo dal suo manovratore. L’arbitrarietà con la quale sono imposte le categorie del dentro e del fuori si traduce nel puro capriccio di chi ha il potere sulla porta. Teatro? Ma fino a poco tempo fa tutti noi siamo stati ostaggi di qualcun altro che decideva se e quanto potevamo stare dentro o fuori da un certo perimetro. L’hybris, la tracotanza del potere – che è sempre mafioso e infetto – ha condizionato le esistenze di milioni di persone, prigionieri volontari (e, in tanti casi, persino entusiasti di cotanto giogo!) di un disegno folle e prepotente.
E allora tutti dentro, senza discutere, fino a nuovo ordine!
È insolente il singolo che si ribella all’imposizione del potere costituito o lo è quest’ultimo che non ammette la sovranità del singolo? Ma l’uomo sovrano è mosso da un disprezzo del potere e della gerarchia analogo a quello del lupo per il collare. L’uomo sovrano non è mai assimilabile e la sua parola è sempre: no! L’uomo sovrano non ammette il giogo, l’uomo sovrano morde la mano che tenta di infilargli il collare dell’obbedienza, l’uomo sovrano esce dai ranghi quando gli pare e piace.
Quest’uomo fa a pezzi le squallide categorie dei benpensanti, le vili consuetudini della borghese ipocrisia: il matrimonio, la famiglia, il lavoro. No, non sarà mai un buon cittadino, un buon padre di famiglia, un buon marito, un buon figlio e men che meno un buon lavoratore. L’uomo sovrano è l’incarnazione stessa dell’hybris. La sua veemenza contestatrice non è però cinismo gratuito e ammaliante cattiveria. L’esuberanza dell’oltraggio spinto ai massimi livelli non è una performance narcisistica ma rivela l’immensa solitudine di chi, dotato di uno sguardo più penetrante degli altri e più obliquo, è condannato al solipsismo. Il suo è un modo di pensare diverso. Lui penetra nel senso dal suo rovescio: quello dell’irrazionalità e della libertà del dire non svilita dalla stampella di un senso qualsiasi. Il suo è un de-pensare e un fare a pezzi il mondo. Procede per spasmi, per scarti, per tumulti e continui franamenti ma non in maniera caotica, bensì con inscalfito rigore e accanimento.
Di chi stiamo parlando? Ma di Antonio, naturalmente!
In scena si muove con lo stesso dispotismo di sempre ma questa volta l’habitat si allarga a nuove presenze. È un gran tumulto di porte che sbattono, un incessante andirivieni di persone, tutte emanazioni che il divin burattinaio muove a piacimento: «tiranno immutabile… impone gli stati d’animo, la gioia e la commozione, la noia e il divertimento». Insieme a lui ci sono: la fidanzata dalle movenze di bambola da carillon, l’amico depresso che puzza di formaggio (aspirante al suicidio assistito in Svizzera), la madre con la quale neanche Edipo avrebbe osato tanto, l’amico perplesso sul quale riversa ineccepibili tirate esistenziali: inutile indagare chi è che bussa alla porta! Chi si trova in certe condizioni deve solo ringraziare (Dio) di essere e basta: teniamoci stretto quel poco che ci resta!
Antonio è un virtuoso della contorsione. Il suo corpo esplora il limite del movimento per meglio attuare la carneficina di se stesso e degli altri. Il suo è un sacerdozio della deformazione. L’urgenza è di esplorare quella soglia dove movimento, parola, suono, corpo e forma si mescolano in un luciferino parapiglia, (non)luogo ibrido e necessariamente tracotante perché totalmente libero.
Hybris è anche una lode al frammento, un pensare per frammenti e uno stare in scena nel frammento. Ogni interazione tra Antonio e le altre presenze è una scheggia di pensiero, un quadro a sé. Hybris si compone di tanti quadri oltraggiosi nei quali tutti i rapporti umani e tutte le istituzioni e le autorità (sovrastrutture emanate dalla perversità dell’umana specie che brulica sistematicamente sulla crosta terrestre da troppo tempo ormai) sono fatti a pezzi: la fidanzata all’altezza della famiglia corrotta con la quale sta solo per distrazione visto che la dimentica appena la vede, i parenti (da non confondere con le persone!), gli amici (sempre invadenti).
Viene inferta una sciabolata mortale al romanticismo perché, per esempio, “il tramonto è per i ritardati”. Le romantiche storie d’amore a cosa puntano se non alla creazione di una famiglia e, in ultima istanza alla propagazione della specie – senza dimenticare che la famiglia è l’anticamera dell’associazione a delinquere di stampo mafioso e l’amore che cos’è se non un geniale alibi che la specie, mafiosa per definizione, si è data per nascondere il delitto di venire al mondo? Il buio deve calare subito, senza l’intermezzo cretino del tramonto; la notte è repentina anche perché a che serve indugiare nel discorso e nei preliminari? Attardarsi nel racconto e nel discorso equivarrebbe ad accettare un compromesso narrativo e questo non si confà all’uomo sovrano. Via il tramonto.
E via anche i nomi. I nomi? Ma con quale prepotenza gli altri arrivano verso di noi che già si chiamano! Un’apologia del battesimo della quale ci rendiamo proseliti nostro malgrado, dovendone accettare l’imposizione per non sfigurare in società. Un flagello che risale al furore nominale di Adamo (su istigazione divina). Gli altri ci impongono in continuazione i loro nomi, dunque la loro presenza, dunque la loro invadenza. E a pensarci bene, il nome, che racchiude l’essenza stessa della nostra identità, la nostra parte più intima, ci è stato affibbiato da altri, cosi come il fardello non richiesto di venire al mondo.
Impossibile e indesiderabile raccontare tutti i quadri di Hybris. Questa è una esperienza da vivere, non da raccontare. Una menzione speciale però va fatta a due scene centrali: le presentazioni dei rispettivi familiari dell’improbabile coppia Antonio/Chiara (laddove la velocità futuristica di Antonio raggiunge vette supersoniche) e la scena del metal detector che vede in primo piano anche il bravissimo e poliedrico Ivan Bellavista, qui in versione un po’ gangster.
Ma forse uno dei fili conduttori di questo “inno al disturbo di senso” che aggredisce temi così scabrosi che ben pochi hanno voglia di affrontare (l’insensatezza dei rapporti umani, l’assurdità di venire al mondo e di uscire dal mondo, l’incomunicabilità, la guerra onnipervadente contro noi stessi e i nostri simili perché l’uomo come diceva Cioran secerne disastro, la violenza domestica, la povertà, le prevaricazioni e le perversità), si può rintracciare in quello spazio ibrido per eccellenza, la veranda, qui invocato con magistrale comicità. “E cos’è la veranda se non il disperato tentativo di fuori di farsi dentro?”. Un dentro/fuori che corrisponde al vuoto incommensurabile che ognuno di noi è e che mai niente e nessuno potranno colmare.
Siamo tutti esseri ibridi, esseri della soglia, incompiuti e interrotti, insomma: dei tentativi.
Con il suo magnetico piglio demoniaco, Antonio Rezza ci sbatte in faccia non una semplice porta ma la dimensione dell’assurdo, cioè quella nella quale siamo costretti a esistere e che, in fondo, ci meritiamo visto che, come diceva Artaud:
Là où ça sent la merde
ça sent l’être.
L’homme aurait très bien pu ne pas chier,
ne pas ouvrir la poche anale,
mais il a choisi de chier
comme il aurait choisi de vivre
au lieu de consentir à vivre mort.
I rapporti si sfaldano, anzi sono già abortiti in partenza senza nemmeno permettersi il lusso di fallire. Si vive nell’eutanasia tutta la vita. L’anarchico, tra un saltello e una smorfia si diverte a trascinare il suo pubblico in questa apocalittica comicità che non ammette salvezza. «Il coinvolgimento durante l’evento è totale e in contraddizione con l’idea di arte didattica, il dialogo è irriverente, è pensiero e ideologia del movimento, tripudio della casualità».
Antonio domina dispoticamente l’habitat di Flavia ma l’effetto complessivo è quello di un imponente lavoro corale e, infatti, le scene collettive sono di grande bellezza grazie alla partecipazione di: Ivan Bellavista, Daniele Cavaioli, Enzo Di Norscia, Cristina Maccioni, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Antonella Rizzo, Maria Grazia Sughi (ai quali si sono aggiunti anche Giordano Rezza e Miriam Fricano).
Inno alla decostruzione, Hybris è l’habitat di tutti noi, i “vivi per sentito dire”, egoisti, individualisti, insopportabili ma accomunati dalla stessa sventura, proiezioni aberranti della mente in putrefazione di un demiurgo che gnosticamente immaginiamo gretto, superficiale e con la bava alla bocca visto che ci ha creati a sua immagine e somiglianza. Una divinità malefica da fischiare a pieni polmoni!
Il teatro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella si riconferma quella forma unica e inimitabile di teatro totale e radicale, una scena del disastro e dell’”euforia carogna” inqualificabile e non assimilabile, refrattario a qualsiasi compromesso e etichetta.
Un teatro sovrano e libero. Un teatro che fa teatro a sé.
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