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Lo scorso 7 settembre, presso la sala del Refettorio dei Musei San Domenico di Forlì, nell’ambito dell’Emilia Romagna Festival sì è svolto il concerto di Gabriel Prokofiev: classe 1975, DJ, compositore, produttore e direttore artistico attivo già da anni nella scena underground londinese.
Nei giorni antecedenti la sua performance a Forlì, molte cose sono state scritte su di lui, fra le quali si enfatizzava sempre la parentela con il musicista di musica classica russa Sergej Prokofiev. Gabriel infatti è il nipote del musicista russo celebre per le sue opere sinfoniche, e soprattutto per aver musicato Romeo e Giulietta tratto dall’omonima tragedia di Shakespeare.
Con una stirpe che molti musicisti invidierebbero, Gabriel Prokofiev è giunto alla sua carriera attraverso un percorso meno ortodosso del previsto. La particolarità di Prokofiev è infatti, quella di fondere la musica classica sinfonica con quella elettronica, riuscendo nel corso di pochi anni ad introdurre nel panorama musicale un genere unico, moderno e internazionale. Il suo background nella musica dance elettronica londinese, combinato con le sue radici classiche, conferisce infatti al suo lavoro un suono particolarmente contemporaneo. Ad accompagnarlo in questa esperienza italiana il Quartetto Nous con due special guest provenienti dallo Stauffer Institute: Marcello Sette al violoncello e Zoe Canestrelli alla viola.
La performance ha assunto il ruolo di un vero e proprio viaggio, teso a stimolare l’ascoltatore verso altre forme interpretative, e verso i problemi di attualità, grazie anche al fatto che Prokofiev prima di ogni esibizione ha descritto allo spettatore i contesti sociali e culturali in cui i brani sono nati. Ho trovato questa scelta insolita, ma stimolante allo stesso tempo, esperienza che da spettatore mi è raramente capitata.
Howl! – Composto nel 2012 e rivisitato nel 2022, ci racconta Prokofiev, nasce dalle proteste nei confronti della repressione degli stati autocratici, con la loro corruzione e confusione, fino a toccare l’uso smodato delle tecnologie, che sulla scena trovano espressione dall’uso del sintetizzatore, come se sulla scena ogni strumento oltre a suonare, rappresentasse un simbolo narrativo. Howl trova spazio in una melanconica danza tra un violino e il sintetizzatore, che rappresenta l’alternanza fra i ritmi sincopati del sintetizzatore e i momenti lirici del violino, per poi concludersi nell’esplosione del quartetto di violini e della performance finale del violoncello. Il mix fra strumento classico e sintetizzatore è la nuova ibridazione digitale che Prokofiev vuole proporre.
I pezzi successivi, String Quartet No 1 e Cello Multitracks del 2011, presentano anch’essi la stessa struttura, anche se, specialmente in quest’ultimo, il suono appare più aggressivo, quasi a toccare la scena Urban e i modelli londinesi più profondi, uniti ad uno stile che ricorda la ritmica del valzer russo.
Jerk Driver e Outta Pulser sono i due movimenti estratti da Multitracks, le cui sonorità sono state prima proposte in versione classica da camera, per poi essere proposte con un live remix in cui emerge il ritmo ostinato, e l’espressione del vibrato degli archi in tutta la loro potenza.
Ma è soprattutto con Breaking Screens del 2021 che Prokofiev sembra sciogliere tutte le sue sicurezze. Nella presentazione del pezzo, parla di come la scena Urban lo abbia influenzato nell’ accettazione delle diversità umane e nel rifiuto delle categorie di genere e di confine. Come lo ha definito lo stesso Prokofiev, è un “progetto classico conflittuale e anarchico”.
A chiudere la performance è stata Pastoral Reflections, risposta contemporanea alla Pastorale di Beethoven. Il linguaggio e la bellezza della natura, contornate però dal continuo spettro delle nefandezze umane e delle industrie, induce a riflettere sul concetto di sostenibilità e sul ruolo nocivo che l’uomo e le industrie stanno avendo sulla natura, che è fragile ma forte allo stesso tempo.
All’interno del refettorio dei musei San Domenico, a far da sfondo alla performance di Prokofiev, c’è un affresco completamente restaurato, ripartito in tre scene da elementi architettonici, in cui nelle scene laterali vengono rappresentati alcuni momenti della vita di San Domenico. Il restauro ha chiaramente riportato alla luce la predilezione per i toni squillanti e il cangiantismo, che testimoniano la cultura policentrica del Cinquecento forlivese, influenzato dal manierismo attivo in quell’epoca a Roma. L’affresco è attribuito a Girolamo Ugolini. L’acustica del refettorio ha reso i suoni soprattutto degli archi più tondi e avvolgenti. La trasmissione dell’energia sonora infatti rendeva il suono continuo, sia da un punto di vista ritmico che da un punto di vista timbrico. Il refettorio permette inoltre una maggiore permanenza del suono dopo che è cessata l’emissione, effetto reso possibile, probabilmente, dalla forma della sala, ma anche dall’utilizzo dei materiali acustici utilizzati durante la performance.
L’intimità della sala mi ha fra l’altro ricordato i quartetti di archi in auge nell’arte musicale fra Settecento e Ottocento che hanno ispirato i compositori, certo consapevoli dei luoghi signorili in cui questi brani venivano rappresentati.