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Mio fratello, fin da piccolo, è conosciuto in famiglia con il nome d’arte di Smascheratore. L’appellativo da supereroe se l’è guadagnato grazie a una peculiare tendenza alla lotta contro quello che, per un’anima sì integerrima, è considerato il peggiore dei crimini: l’ipocrisia. Quando, da bambini, partecipavamo al pranzo annuale del parentado allargato, oppure si incontravano conoscenti per strada, o in corrispondenza delle chiacchiere di cortesia dal panettiere abituale, immancabilmente si potevano sentire sbuffi, agitazione, movimenti stizziti sulle gambe, il serrarsi improvviso delle labbra per non farsi sfuggire improperi nei confronti dei protagonisti degli show di circostanza cui, di malavoglia, si ritrovava a essere spettatore.
Sovente mi sono chiesta da quale trauma potesse derivare l’intolleranza al rituale delle buone maniere, da cosa dipendesse l’urgenza dell’andare contro, la radicale propensione allo svelamento del reale, delle autentiche motivazioni che ci spingono ad interagire con l’altro. Nostra madre lo rimbrottava spesso e volentieri, minacciandolo che non avrebbe trovato un lavoro, un affetto, un amico, che i rapporti umani sono fatti di compromessi, che la verità può far male e mettere nei guai, è materia tagliente, ma lui niente. Come il più estremo degli anacoreti non poteva che perseguire la sua strada, incurante dei rischi e in simbiosi con la sua missione.
Una delle occasioni maggiormente in grado di scatenane i poteri – livello super saiyan – era a tavola, quando i nostri genitori, ai tempi poco più che trentenni, si ritrovavano a parlare di loro coetanei, e mio padre, come usuale, non riusciva a dare un volto alla persona della quale si stavano narrando le gesta. Allora mia madre, candidamente, attaccava dicendo “Ma sì, dai, è quel ragazzo…”. Lei non sapeva che associare quella parola a una persona di più di diciotto anni, in una stessa frase, poteva dare libero corso alla rabbia di Hulk. Ed era finita.
Chi di ageismo ferisce…
Avete presente quando nei sondaggi viene chiesto di collocarsi in una fascia d’età e compare la categoria “over 50”, appiattendo in una parola e un numero le differenze di circa la metà della popolazione mondiale? Sapevate che la mastectomia totale senza ricostruzione, in caso di tumore alle mammelle, è molto più diffusa nelle donne sopra i sessant’anni? Come ci fosse una soglia che decreta quando il seno non serve più. Ricordate quando alcuni paesi europei, in piena pandemia da Covid 19, hanno fissato nelle linee guida il limite di accesso alle terapie intensive a 80 anni? E per quale motivo nelle pubblicità dei profumi compaiono solo corpi lisci e scintillanti? Le fragranze non attecchiscono se il tono della pelle cambia? Perché, a un punto preciso della vita, tutto sembra una sollecitazione ad abdicare a ogni desiderio e mettersi da parte, alla pari di un vasetto scaduto di yogurt sul fondo del frigorifero, in attesa che una pietosa anima lo getti via?
Anche se i 50 sono i nuovi 40 da certe cose non si scappa, e malgrado la compulsione al consumo di prodotti e terapie finalizzate al mostrarsi sempre giovani, come se il trascorrere del tempo fosse un’onta, l’ossessione tutta antropologica per le classificazioni ha stabilito precisamente quando è il momento di essere anziani. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la categoria, che ha sfumati confini tra il sociale e il medicale (quindi invecchiare è anche una malattia?), raccoglie tutte le persone sopra i 65 anni, ulteriormente suddivisibili in terza età (se ci sono buone condizioni di salute, inserimento sociale e disponibilità di risorse) e quarta età (quando subentra perdita di autonomie e decadimento fisico).
Robert Neil Butler, medico e psichiatra statunitense, verso la metà del secolo scorso ha cercato di fare un poco d’ordine in mezzo a questa schizofrenia tra essere e apparire, provando a fare emergere e ridenotare gli stereotipi connessi all’invecchiamento tramite l’individuazione della nozione di ageismo. Nel calderone dell’ageism possiamo trovare tutti gli atteggiamenti, le prassi e le politiche che istituiscono e rafforzano i pregiudizi nei confronti dell’età di un individuo. Per una persona anziana l’essere oggetto di preconcetti negativi, collegati alla colpa della non giovinezza e al senso di inutilità, può influire sul tono dell’umore, sulle prestazioni cognitive, sul livello di socialità, sulla salute come conseguenza di più alti livelli di stress, accelerando di fatto il processo di senilizzazione e provocando, nei casi più estremi, morte prematura.
Continuando nell’allegra carrellata delle scissioni, possiamo anche dire, generalizzando, che viviamo in un sistema nel quale il maschio, con la maturità, acquisisce eleganza e credibilità, quando uno dei maggiori tabù rimane il considerare la menopausa come fase della vita, piuttosto che come condizione patologica. Gli effetti degli stereotipi ageisti non sono quindi gli stessi per tutte le persone, ma si correlano a molte altre variabili legate all’identità, prima fra tutte quella del genere – e ti pareva! Nell’epoca della psicologia positiva e del benessere personale, sono così nate diverse panacee volte a scardinare l’associazione tra terza età della vita e marcia sul viale del tramonto, soprattutto dalle e per le donne.
Signore, volete smettere di tingere i capelli? Nessun problema, siete in buona compagnia: ad attendervi c’è la community delle gray sisters. Ci sono poi i silver surfer, che, giocando con il nome del personaggio Marvel, definiscono i nonnetti e le nonnette particolarmente capaci con il digitale e la rete. Anche se il termine millennials pare indicare qualcosa di già un po’ muffo, evidentemente piace a chi già c’era quando i nati tra il 1980 e il 2000 erano nella fanciullezza davvero, ed ecco farsi largo i perennials, termine sdoganato dall’imprenditrice digitale Gina Pell per descrivere “persone curiose, sempre in fiore, consapevoli di cosa sta accadendo nel mondo, al passo con la tecnologia, con amici di ogni età”. In fin dei conti è solo una questione di mentalità.
Siamo proprio sicuri che l’esito di tanto ottimismo sia quello di costruire nuove narrazioni, capaci di raccontare un tempo denso e valevole, e non solo di produrre hashtag spendibili sui social? Non so voi, ma la mia pelle di femmina quarantenne si increspa al pensiero delle comunità pronte ad accogliermi. Queste proposizioni non spostano di una virgola il focus della questione: il problema dell’ageismo non è relativo alla ricerca di soluzioni per essere sempre in fiore, prestanti e performanti produttori e consumatori di oggetti ed esperienze, ma il non considerare la modificazione del fiore negli anni come processo felice, inevitabile e auspicabile, naturalmente facente parte della vita animale.
Da consumarsi preferibilmente entro
Interrogando l’arte sul tema del tempo, pare interessante soffermarsi sulle differenze di approccio tra la performer basca Esther Ferrer e il pittore franco-polacco Roman Opalka, le cui immagini accompagnano il nostro scritto. Ambedue si sono concentrati sul ritrarre i propri primi piani nel trascorrere degli anni, utilizzando la stessa inquadratura, luce, distanza dall’obiettivo, espressione.
Il progetto di Roman Opalka, classe 1931, ha avuto inizio nel 1965, e, parallelamente alla realizzazione delle foto, consta di tele sulle quali ha raffigurato piccolissimi numeri in progressione, dall’1 fino al giorno della sua morte, nel 2011. Finita una tela, prima di iniziare quella successiva, scattava un autoritratto. La fine della vita l’ha colto al numero 5.607.249, e la serie, per chi avesse interesse, si intitola Détail 1965/1-∞ – con quell’infinito che ci fa intendere come l’intento di partenza fosse decisamente ambizioso. Esther Ferrer ha invece avviato, nel 1981, la produzione di autoraffigurazioni a cadenza quinquennale, creando poi collage composti da mezzi volti di periodi differenti. Ferrer è nata nel 1937, e il processo è ancora in corso.
Quello a cui rimandano i due percorsi paiono due sensazioni sul tempo diametralmente opposte: dalla condanna lineare della prima posizione troviamo sollievo nella concezione circolare della seconda. Evolvere può suscitare angoscia e senso di fallimento se il desiderio onnipotente è di infinito, ma nella tonda percezione di una sola immagine compiuta, che ci parla di continuità, stratificazione e di qualcosa che si pone come l’assoluto contrario della perdita, un salto di ventitré anni (2004-1981) sembra impercettibile, uno di trentotto (2019-1981) appena evidente.
Il passaggio del tempo, nonostante il timor reverenziale per l’avvicendarsi del giorno del giudizio che ci è stato insegnato dalla narrazione dell’Occidente, è indispensabile per la significazione dell’esistenza. L’attivista e filosofo Mark Fisher se lo è chiesto chiaramente nella sua inesausta critica al capitalismo: “senza il nuovo, quanto può durare una cultura?”. Se rimaniamo incastrati nell’idea che il futuro possa portare solo una ripetizione, un po’ peggiorata, di quello che già esiste, invece che aprirci ad una possibilità in grado di produrre sensazione, stupore e dinamica, annulliamo la nostra vitalità. Il neoliberismo ci spinge a mettere pezze – farmacologiche, chirurgiche, tecnologiche, cucite per essere alla moda e basate sui consumi in generale – facendoci soffrire di nostalgia per un futuro perduto, e svuotando al contempo il presente (perché ci proietta in un tempo altro) e il passato (poco degno di interesse, anzi, decisamente inutile, in quanto spazio che rende impossibili le transazioni).
In merito al tempo dell’identità, lo psicoanalista tedesco Erik Erikson ha concepito lo sviluppo psicosociale come una crescita che dura dalla nascita alla morte con uguale valore e significato, in una progressione di crisi da risolversi per passare allo step successivo della formazione di personalità. Ogni fase può avere due risultanze contrastanti, e alla fine dei giochi ci confrontiamo con il conflitto più importante, quello che può avere come esiti l’integrità dell’Io di chi ha vissuto e ha saputo, evolvendo, essere generativo, versus la disperazione di coloro che si sono fermati alla stagnazione dell’autoripiegamento nei rimpianti. Una cultura diventa merce quando ha come unico scopo quello di preservare ciò che già esiste, come un corpo diviene pezzo da museo se ha come solo fine quello di non subire cambiamenti. Per fare meno fatica sulle salite che portano all’integrazione è così consigliabile affidarsi alla più semplice e inusuale cura vitaminica, oltretutto gratuita: invecchiare.
Arrivati a questo punto voglio credere che nelle idiosincrasie di mio fratello ci fossero sì un poco della paura e delle scaramanzie di Roman Opalka, ma soprattutto, in nuce, la consapevolezza dell’invito di Esther Ferrer all’essere interi in ogni momento, e del guardare le cose per quello che sono: a trent’anni non si è più ragazzi perché invecchiare non è una disgrazia che necessita di essere celata, ma un diritto affascinante cui appellarsi con nome proprio, e che socialmente occorre garantire e reclamare a gran voce, iniziando a smantellare la prassi del confino – fisico ed esperienziale – per le persone considerate non più (o non ancora) sufficientemente produttive. Servirà manifestare per la nostra imperitura spettanza all’imperfezione, all’efficacia, alla cura, ai legami, al divertimento, ma prima di tutto bisognerà silenziare quella vocina interiorizzata che ci dice che abbiamo una data di scadenza, trasformando la nostra vita in un conto alla rovescia, anche se progressivo.
Quando ero ragazza me lo disse una persona: diventar vecchi è un privilegio, che si costruisce nel corso di tutta la vita. Questa frase non l’ho dimenticata. Augurandoci che tale fortuna toccherà a tutte e tutti noi, per prepararci al meglio, possiamo iniziare traendo ispirazione da qui.
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Letture
Mark Fisher (2018), Realismo capitalista, Nero Editions
Visioni
Esther Ferrer
Roman Opalka
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