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Prendiamo a prestito, parafrasandolo, il titolo di un mitologico spettacolo di Teatro Settimo per dare avvio ad alcune riflessioni sull’enciclopedica riapertura, merito della pervicace visionarietà di Isadora Angelini e Luca Serrani, anime di Teatro Patalò, del Teatro Sociale di Novafeltria, paesino sulle colline sopra a Santarcangelo di Romagna e Rimini.
Proprio a Santarcangelo di Romagna debuttò quasi quarant’anni fa (era il 1985), Elementi di struttura del sentimento, che Laura Curino, Lucio Diana, Mariella Fabbris, Roberto Tarasco, Gabriele Vacis e Adriana Zamboni crearono a partire da Le affinità elettive di J.W. Goethe.
I nomi di queste donne e di questi uomini di teatro rimandano -sia detto per chi si trovasse a legger qui e non li conoscesse- a un modo artigianale, concreto, finanche materico di intendere la pratica scenica: un’attitudine sideralmente distante da astrusi concettualismi destinati a una qualche élite.
Premettiamo tutto ciò per stupefacente sintonia, ci pare, con chi questa impresa sulle colline tra Romagna e Marche sta azzardando, e che ha avuto avvio in due dense giornate di inaugurazione, ideate e realizzate con la limpidezza curatoriale di chi il teatro lo pensa ma anche, ogni giorno, lo fa.
Una riapertura enciclopedica, abbiam scritto qui sopra.
Come non pensare alla vertigine della lista analizzata da Umberto Eco, nell’imbattersi nella struttura elementare -aggettivo qui inteso come intenzione a rendere manifesti i nuclei posti alla base del teatro, o almeno a una certa idea e pratica di teatro- di questo avvio?
Questi, in sintesi, gli elementi (non ce ne vorranno i Direttori Artistici se semplifichiamo, per amor di leggibilità, un progetto culturale stratificato e lungimirante, in cui ogni componente è profondamente interrelata alle altre).
Il rapporto con le diverse età: ed ecco i frammenti del percorso pedagogico in essere con gruppi di adolescenti, la musica proposta da un affiatato duo padre-figlio, le creazioni sceniche per l’infanzia e quelle per adulti.
La lingua madre, nelle esilaranti, poetiche briciole di Denis Campitelli.
La lingua letteraria, nella sanguigna, tagliente interpretazione di Angela Antonini di testi di Anne Sexton.
Il corpo danzante di Claudio Gasparotto.
Le ammalianti fotografie di scena di Dorin Mihai, a ricordarci che il teatro è arte composita, è pratica del noi: di diverse anime e linguaggi intrecciati.
Il divertito e divertente concerto di Antonio Ramberti.
Il cibo e il vino, a dar luogo a un’esperienza estetica multisensoriale –rasica direbbe qualcuno- a recuperare antropologicamente il senso del teatro come gioco-rito-festa.
In conclusione, l’unico spettacolo intero di queste due giornate, che ha con forza e chiarezza enucleato e rilanciato gli elementi essenziali dell’arte scenica: Il vagabondo delle stelle di e con Francesco Pennacchia, da Jack London.
Questi gli ingredienti.
Spettacolo come luogo creativo, finanche creaturale in cui la fabula si edifica, materialmente, davanti ai nostri occhi. Arte dell’attore come quella di un vasaio, il cui lavoro fa sorgere da un ammasso di materia una forma compiuta. Vien da pensare ad Andrea Zanzotto, alla sua Elegia in petèl, al balbettio come cominciamento, resistenza all’afasia che prelude ad ogni creazione poetica e dunque, etimologicamente, a ogni creazione, di fronte a questo dedito creattore intento ad articolare, “con quella pacata amara indifferenza dell’attore che conosce i polli della sua platea”, per dirla con Ennio Flaiano, la prima frase: “Da bambino eri una coscienza in mutamento”. Touché.
I diversi codici interpretativi: l’istrionico imbonitore, appunto, ma anche il narratore, l’attore (di cristallina, didattica chiarezza il dialogo fra due persone costrette in una camicia di forza reso variando la direzione del capo, verso l’alto e verso il basso).
L’attore-danzatore il cui corpo-teatro riesce, con millimetrici spostamenti di pesi e direzioni, a costruire geometrie, dunque misurazioni dello spazio, per poi subito, senza posa, destrutturarle.
L’arte della spada e del corpo-marionetta.
Dal punto di vista della costruzione dell’immaginario, dar forma al viaggio del protagonista in diverse epoche e luoghi. Roland Barthes definisce il teatro “una pratica che calcola il posto guardato delle cose: se metto lo spettacolo qui, lo spettatore vedrà questo; se lo metto in un altro posto non lo vedrà e io potrò approfittare di questo nascondiglio per produrre un’illusione”. Perfetto.
Dal punto di vista della ricezione e della percezione dello spettatore, parallelamente, reiterati assorbimenti e dilatazioni temporali.
Semanticamente, l’alternanza di elementi oggettivi ed altri simbolici (uno su tutti: il microfono a filo, calato dall’alto, che a più riprese oscilla nello spazio scenico, ad evocare lo scorrere del tempo – e a ricordarci che il teatro è arte, appunto, irriducibilmente temporale).
La messa in evidenza di alcuni fattori (materici, ancora) a cui spesso non si presta consapevole attenzione: la luce (che in certi momenti, sapientemente, fa affiorare dal buio un dettaglio minuto del corpo, come la punta di un piede, il dito di una mano), il suono (ad esempio mediante strofinamento del cavo microfonico, a produrre attrito), l’amplificazione (alternando testi detti a voce nuda o utilizzando un microfono).
Una drammaturgia a faglie, che procede per sovrapposizioni e slittamenti, parallelamente al viaggio, siderale e surreale, del protagonista.
La possibilità di maestria senza ostentazione.
Un bravo attore come un bravo artigiano o, avrebbe detto Mejerchol’d, come un operaio: qualcuno che con sapienza -e senza sprechi- si adopera per giungere intenzionalmente a uno scopo.
A proposito di scopo.
Per come va il mondo è impresa affatto donchisciottesca, aprire o riaprire un teatro, soprattutto in un paesino lontano da tanto altro.
Che si voglia un teatro-giardino, un teatro-casa o un teatro-laboratorio servono un progetto. E determinazione.
E una struttura, come dicevamo nel titolo: architettonica, linguistica, progettuale che sia.
E il desiderio, che nell’etimologia è parola che ha a che fare con le stelle. E con lo sguardo.
Come il teatro: luogo di sguardi e visioni.
Come l’arte, quando è viva, quando è tale: un’occasione per ritrovare, e rilanciare, la nostra possibile umanità.
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