L’antropologo Ernesto De Martino individuava nel ri-morso della taranta, il ripresentarsi ciclico di un dolore impossibile da cancellare e che doveva necessariamente essere curato attraverso il rito, la danza. Ritorno, cura e rito. Tre elementi che caratterizzano il ciclo di Tè End? di TeatrO dell’Orsa, giunto alla conclusione (almeno fino a questo momento) in una performance itinerante in natura il 29 ottobre 2022 in zona Ginepreto (RE) all’interno del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano.
Il rito è quello performativo-teatrale, laico ma non per questo vuoto. Anzi necessario per colmare una frattura: l’assenza dei funerali per i morti durante la pandemia. “Vedevo funerali ovunque” dice l’attrice e regista Monica Morini all’inizio del percorso. Ecco il morso della taranta che ha scatenato il processo creativo. Da qui la ricerca: l’intervista agli operatori delle RSA, ai parenti delle vittime e il bagaglio delle esperienze personali. La realtà che assume forme di inchiesta giornalistica viene poi convertita ed eternata nelle forme dell’arte: la poesia di Antonella Talamonti, la partitura di Gaetano Nenna che traduce le iniziali dei morti in note e il canto recitato di Monica Morini, Bernardino Bonzani, Lucia Donadio e Chiara Ticini. Questo guida e coglie il pubblico durante il percorso, immerso in un silenzioso cammino per il bosco assolato d’autunno.
Così, insieme, veniamo morsi dal valore del ritorno. In un tempo in cui le emergenze si succedono senza darci il tempo di sedimentare le fratture ormai quasi quotidiane, la permanenza o la ricreazione di un rito ci ri-guarda e ci porta alla ri-flessione. La pandemia e le sue vittime, malgrado ancora presenti, sembrano un ricordo lontano a malapena visibile tra guerre ed emergenze climatiche. Eppure i morti rimangono nell’affetto di chi li ha perduti. Il morso non è solo della compagnia, ma è collettivo e insieme dobbiamo affrontarlo nel percorso uscendo, fuor di metafora, dalla selva.
La cura è l’elemento più complesso e intangibile di tutta l’operazione. Principalmente si trova nella natura come una presenza invisibile che ci accoglie e ci consente di affrontare il dolore rigenerandoci. Interagiamo con lei. Raccogliamo le foglie cadute degli alberi, dove ci viene chiesto di scrivere il nome di un caro che non c’è più. In quella semplice azione restituiamo a quel nome un corpo proveniente da una quercia, un leccio o un faggio. Primo stato della materia: solido.
La cura è anche quella degli attori e degli altri spettatori che non ci fanno sentire soli, ma ci rendono parte di un insieme collettivo in atto. È quella dei musicisti della Banda di Felina, diretta da Davide Castellari, che cominciano a puntellare con note la loro figura nel paesaggio appenninico che si apre dopo il bosco. Qui la Pietra di Bismantova, formazione rocciosa che caratterizza la vista di quella porzione di Appennino, comincia a fissarci e si ha la sensazione che anche lei partecipi a quello che stiamo facendo. Anche la sua presenza, in qualche modo, ci cura.
Questi tre elementi saggiamente dosati da luogo e performance nel percorso, raggiungono il proprio apice nell’altura, appena sotto la Pietra, mentre la Banda di Felina suona una marcia funebre e noi ci sistemiamo attorno quel palco naturale. Quella musica, l’autunno e le figure del TeatrO dell’Orsa rimandano al film di Pina Bausch Il lamento dell’Imperatrice. Anche lì si piange una morte, lo si fa con un tema sonoro continuo e l’alternarsi di presenze in stato di danza con il paesaggio. Qui, invece, ci sono le parole. Parole di cura e di coraggio. Qui troviamo i gesti. Quello purificatore di gettare le foglie-corpo nel calderone lasciandole andare nel vento, unite al nostro saluto collettivo. Secondo stato della materia: gassoso.
Celebrato il rito laico, è il momento di ritornare. L’Agriturismo Il Ginepro attende attori, musicisti e spettatori per un tè collettivo. Ritornano le foglie secche per esercitare la loro cura finale entrando nel nostro corpo come una medicina ristoratrice liberandoci, temporaneamente, del rimorso. Terzo stato della materia: liquido.
Anche qui non mancano le parole. Questa volta sono lette dai numerosi libri – compagni di viaggio della compagnia – e dalla frasi pendenti, come foglie di alberi, della Bottega Aggiustacuori costruita e agita da Franco Tanzi. Ma sono anche depositate dagli spettatori su un quaderno per accogliere i loro commenti.
Se, quindi, gli stati della materia sono stati i mezzi di espressione del rito teatrale, sono le parole, poetiche e rinnovate, a costituire la possibilità di un suo ritorno e a gettare la basi per una cura quotidiana. Alla fine è stato questo il baratto del teatro che ha permesso il rito: nomi in cambio di parole. Uno scambio metaforico perché nessuno dei due elementi si consuma, ma persiste nella memoria di chi l’ha vissuto.
Un’avvertenza a lettori e lettrici e una richiesta a spettatori e spettatrici
Chi scrive ha collaborato all’allestimento e alla realizzazione dello spettacolo che rientra all’interno del progetto di Dottorato PON che prevede la relazione tra agriturismo e arti performative per la realizzazione di performance e spettacoli in luoghi naturali. Pertanto il contributo ha tentato di restituire una testimonianza (favorita e soggettiva) di quanto avvenuto astenendosi da qualsiasi opinione critica.
Se avete preso parte allo spettacolo potete contribuire alla ricerca compilando il questionario qui.