Le particelle elementari. Alcune domande a partire dal nuovo spettacolo del Teatro dell’Argine

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ph Luciano Paselli

 

In fisica una particella elementare è indivisibile: non è composta da altre più semplici.

Quasi un quarto di secolo fa Michel Houellebecq ha scritto un libro, con questo titolo, che lo ha catapultato nella hall of fame degli autori, arcinoti e ricchissimi. Ma questa è un’altra storia.

A proposito di storie: pochi giorni fa siamo andati all’ITC Teatro di San Lazzaro di Savena, alle porte di Bologna, a vedere la nuova creazione in divenire del Teatro dell’Argine.

Titolo: The Shoe Must Go On.

Sinossi (dai materiali della Compagnia):Uno spettacolo senza parole ma con tante scarpe e qualche braccio. Una drammaturgia originale scritta per raccontare, attraverso la poesia, l’incanto e la magia del gioco teatrale, la vita di chi è perseguitato perché considerato diverso. I personaggi principali sono scarpe – di gomma, da ginnastica, anfibi, stivali – e una strana famiglia di guitti/attori/mimi/macchinisti che le animano. Nato nel 2013 nell’ambito del progetto internazionale Acting DiversityThe Shoe Must Go On torna sul palco dell’ITC in una nuova versione ampliata e con un nuovo cast, ma continua a parlare a un pubblico di qualunque età e latitudine in modo unico e sorprendente, unendo il teatro di figura e le videoproiezioni, il grammelot e le ombre cinesi, il mimo e il teatro d’oggetti”.

 

ph Luciano Paselli

 

Dopo lo spettacolo abbiamo a lungo dialogato con il regista, Andrea Paolucci, di cui da molti anni apprezziamo la visionaria, lungimirante progettualità culturale (temine qui usato in accezione larga, anche extra-artistica) e soprattutto la capacità di farsi alchemicamente attraversare da altrui significanti e significati.

Le particelle elementari: ogni volta che ci capita di imbatterci in spettacoli a nostro modo di vedere non del tutto conclusi ci sembra che emergano con più limpida evidenza alcune caratteristiche -elementari, appunto- dell’accadimento teatrale, che il non ancora perfetto fluire e coesistere dei diversi elementi che li compongono rende ancor più leggibili.

È in tal senso un esercizio molto chiaro e utile di riconoscimento nominazione, quello che si è chiamati a fare.

Di cosa è composto, in sintesi, uno spettacolo?

Domanda impossibile: non vi sono assoluti, tanto meno nell’arte sfuggente e liquida della scena.

Quindi di cosa parliamo, quando parliamo di teatro?

E di buon teatro?

E di teatro efficace? O utile?

Questioni smisurate, certo: domande irrispondibili.

Ma fa bene farsi e fare domande larghe, ogni tanto.

E ben venga se a stimolarle è una creazione semplice, fragile, senza troppe pretese.

 

ph Luciano Paselli

 

Lo spettacolo inizia: i vestiti neri dei dediti performer, i loro proteiformi utilizzi di alcuni oggetti in scena (in questo caso, nomen omen, soprattutto scarpe) ci fan pensare a pratiche laboratoriali.

Si è in un’officina, qui, in cui alcuni elementi costitutivi del fatto teatrale vengono evidenziati e problematizzati.

Il patto che l’opera instaura con il fruitore, innanzi tutto: presentazione o rappresentazione?

Siamo nel territorio del far finta e dell’arcinota sospensione dell’incredulità per cui piace (ed è necessario) credere che quella scarpa sia un telefono o che quell’elmetto renda la figura in scena un soldato affinché il gioco teatrale abbia luogo, oppure siamo nel luogo della presentazione, in cui un ombrello è un ombrello, un cubo e un cubo (cioè un solido che occupa uno spazio volumetrico) e un cavallo è un cavallo (questa è una citazione: Jannis Kounellis, nel 1969, in una galleria d’arte nel cuore di Roma non porta in mostra rappresentazioni -disegni, fotografie, sculture- di cavalli ma dodici cavalli in carne e ossa e odori e deiezioni e sbuffi).

 

Jannis Kounellis, Senza titolo, 1969

 

A proposito di gioco (teatrale): vi è il gioco di parole del titolo.

Vi è poi il gioco (elementare, ancora) a cui rimanda il titolo della Stagione 2022-23 dell’ITC: nomi cose città. Gioco del nominare, dell’enucleare: perfetto.

Nelle attrici e negli attori in scena, ci diciamo e diciamo, vi è una sottolineatura espressiva che rimanda agli stilemi del teatro ragazzi.

Domanda (per noi): quanto siamo in grado di ricevere sistemi di segni quali essi sono e non per forza farli filtrare attraverso schemi cognitivi (Umberto Eco docet) per cui ciò che vediamo non è la cosa in quanto tale ma la distanza tra la sua manifestazione e l’idea che noi abbiamo di come quella cosa dovrebbe essere?

Dannazione narcisistica, la nostra: non incontrare le forme del mondo ma vedere in esse riflesso il nostro io (valutante).

“Forse servirebbero più precisione e geometria, meno espressione”, abbiam sintetizzato al regista, dopo lo spettacolo. E ancora: “Si potrebbe forse lavorare in senso coreografico, con maggior esattezza negli spostamenti di peso, nelle variazioni di direzione, nel rapporto tra tensione e rilascio fra i corpi e con gli oggetti”.

Altra domanda (per noi): la funzione critica che siamo spesso invitati ad esercitare, giacché si esplica in lavoro gratuito ma al contempo supportato da fondi pubblici (lo spettacolo, la cena, l’ospitalità), a cosa è etico che dia forma?

Storicamente, è noto, la critica nasce come anello di congiunzione tra le opere e i fruitori. Nel caso di creazioni tutt’altro che ostiche come quella in esame oggi, tale funzione vien subito a mancare. Quindi?

Altra funzione: dar corpo a una società di discorso (Foucault docet) – funzione nefasta perché escludente. Rischio a cui è doveroso prestare attenzione.

Ancora: in virtù di una supposta competenza alimentata dal gran numero di visioni, dispensar consigli entrando nel merito di come uno spettacolo è costruito. Funzione paradossale, giacché sarebbe legittimo obiettare: “Se sei così bravo a creare uno spettacolo, crealo!”.

Infine (ma a lungo si potrebbe continuare): funzione “medaglietta”: in vece di prolisse elucubrazioni metter lì due parole roboanti (spettacolo bellissimo, o anche meraviglioso, indimenticabile, straordinario, ecc), che l’artista di turno apporrà nei proprio materiali e canali promozionali a dare ulteriore lustro alla propria proposta commerciale.

Rischi (ma tanti altri se ne potrebbero nominare) a cui porre attenzione, giacché tutta questa giostra gira con soldi pubblici (pochi, maledetti e in ritardo, ma pubblici: provenienti cioè in gran parte dalle tasse di persone a cui nulla interessa di tutto ciò di cui stiam trattando).

È una responsabilità non da poco, andare a vedere ciò che è dato a vedere e poi pubblicamente parlarne.

 

foto dalle prove – Archivio Teatro dell’Argine

 

In conclusione: lo spettacolo del Teatro dell’Argine certo troverà significati e misure ad oggi intuibili ma non ancora del tutto assestati.

Speriamo di poter dire lo stesso di noi che gli spettacoli li guardiamo con l’onere (e l’onore) di prender parola su di essi.

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