Costruire comunità. Ci sediamo su quella panchina?

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Katerina Kamprani, Cutlery Set - The Uncomfortable, 2014

 

Ok, ci stiamo avvicinando alla fine dell’anno. È momento di elenchi, conteggi, liste, raccoglimento di ciò che è stato fatto durante questi lunghi giorni, e tra i vari inventari che mi accingo a comporre ce n’è uno che amo particolarmente: quello delle parole abusate.

Per il 2022 il podio è già stabilito, e nell’attesa di togliere dagli imballi alberi di natale e presepi, mi piacerebbe capire come l’architettura ostile può venire in aiuto per raggiungere un oramai diffuso e gradevole obiettivo (quarto e terzo posto) verso cui riversare tutta la nostra resilienza (secondo posizione): il senso del decoro (and the winner is!).

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Edificare il controllo sociale

Nel novero dell’architettura ostile rientra ogni azione strategica che abbia lo scopo di controllare il comportamento degli abitanti dell’urbe, al fine di preservare l’ordine stabilito da chi occupa ruoli di potere e privilegio. La incontriamo quando la progettazione della città modella il nostro agire, definendo quali bisogni è lecito provare e i parametri di accettabilità nell’uso dello spazio pubblico.

Nel momento in cui un’amministrazione toglie le panchine dalle strade perché non si creino assembramenti, posiziona telecamere ad ogni crocicchio, illumina d’immenso un angolo riparato che potrebbe fungere da giaciglio o zona di gioco segreta, elimina le sedute alla fermata dell’autobus, posiziona panche in metallo al posto di quelle in legno (in modo che diventino roventi sotto il sole e gelide d’inverno) pianifica scientemente l’impossibilità di usufruire autonomamente dell’ambiente collettivo, di attivare socialità e comunità non commerciali, di trovare libera risposta alle proprie esigenze. La polis si trasforma in area deputata esclusivamente al lavoro e allo shopping, alla produzione e al consumo, avversa a chi si colloca fuori da questi sistemi. Chi l’attraversa è spinto all’isolamento, e lo spazio privato rimane l’unico orizzonte per trovare risposte, anche alle necessità primarie: senza panchine, per produrre riposo, non ci resta che consumare al bar.

Sebbene lo scopo sia così roboante, le pratiche per raggiungerlo sono quasi sottosoglia. L’intervento è talmente sistemico e liminale da passare inosservato. Per mettere alla prova questa cecità indotta, ho deciso di fare un esercizio di allenamento dello sguardo, e ho preso ad esempio un semplice tragitto, quello che tutti i giorni compio per andare dal luogo dove abito a quello in cui lavoro. Per me, cittadina adulta lavoratrice con un letto di proprietà, si è sempre trattato di un attraversamento utile per raggiungere un punto B partendo dal punto A. Forse non è così per chi desidera trovare riparo per schiacciare un pisolino, per le persone bambine che cercano divertimento, per chi preferirebbe sedersi per fare due chiacchiere senza spendere un euro per un caffè. Così ho provato a immaginare,  ho empatizzato con quelle esigenze, e mi sono guardata intorno per trovare siti nei quali espletarle.

Riassumo la mia breve ricerca (lunga esattamente 1 km, tra il centro e la prima periferia di Parma) in un patchwork di unpleasant design (vedi immagine sotto), nel quale si possono riconoscere: pali dissuasori antisosta, borchie metalliche antiseduta, grate per rendere inaccessibili pertugi riscaldati dalle luci, sedute alle pensiline dell’autobus separate da braccioli per impedire sonno o pause prolungate. Paesone mio, mi stai forse dichiarando guerra?

 

Architettura ostile in Parma, novembre 2022

 

La disciplina del corpo docile

Il filosofo francese Michel Foucault, alla metà del secolo scorso, per capire come fosse cambiato il controllo sociale nel passaggio tra ottocento e novecento, prese a modello la strutturazione architettonica del Panopticon, carcere ideale progettato dal giurista Jeremy Bentham alla fine del ‘700. Da questo luogo fisico è possibile desumere un protocollo d’azione, il panottismo, basato su precisi dispositivi di potere: controllo gerarchico, sanzioni e il sentirsi costantemente in esame.

Prima del panottismo, sull’esempio della Santa Inquisizione, sui presunti colpevoli di atti aberranti si svolgevano indagini e si raccoglievano prove. Dopo, il fine è diventato la normalizzazione di tutta la devianza, tramite una disciplina talmente diffusa da essere introiettata e applicata in ogni tempo e in ogni spazio, anche fuori dalle strutture deputate al controllo. Un modello – nato per il carcere – era pronto per essere esportato e propagato pervasivamente nella società civile occidentale, allo scopo di trasformare la massa indisciplinata in una somma di cellule omogeneizzate, insidiando atti puri come lo sport,  l’organizzazione di un ambiente scolastico, l’allargamento di una strada. Come?

 

Cell House – Illinois State Penitentiary, Stateville

 

Nelle strutture che seguono il modello del Panopticon, un unico sorvegliante ha l’opportunità di controllare tutti i sorvegliati senza che questi possano avere consapevolezza su dove si posi il suo sguardo. Chi osserva esercita potere e costruisce sapere su chi è oggetto di informazione, al quale, contestualmente, non viene lasciata opportunità di diventare soggetto di comunicazione (i piantonati sono accuratamente isolati e separati fra loro). Solo chi conosce esercita il controllo, un particolare tipo di dominio che parte dai corpi.

Il sistema è riproducibile e subdolo, e prevede spazi ampi – concreti e virtuali – nei quali i corpi possano essere tutti e completamente visibili: i banchi di fronte all’insegnante nell’aula, i letti dinanzi al medico nelle stanze d’ospedale, gli operai alla catena sotto l’ufficio a vetri del direttore, gli impiegati in smart working al cospetto di un management che monitora gli accessi al programma aziendale, le persone nelle grandi piazze o nei viali (a oggi dotati di telecamere) che hanno preso il posto di borghi e carrugi, i profili sui social.

Questi luoghi sono programmati per elicitare senso di insicurezza e tensione, perché mai si può sapere quando e se si è sotto osservazione, e se il livello individuale di ammaestramento e normalizzazione verrà giudicato sufficiente da chi è deputato a erogare premi e punizioni. Il panottismo è studiato per portare ad una interiorizzazione dello sguardo di chi controlla, un po’ come accade con il Super-Io freudiano, o il Grande Fratello orwelliano. Quando il grande occhio a cui nulla sfugge trova dimora accogliente dentro di noi il sistema viene sollevato dal compito di esercitare disciplina in modo palese e diretto, in quanto ci ha resi efficienti, insegnandoci a farlo in autonomia. Solo nella compiacenza è possibile provare un minimo sollievo. Siamo sì spinti ad accrescere forza e competenze, ma solo per essere sempre più docili e obbedienti.

L’alternativa: costruire comunità

Katerina Kamprani, Chain Fork – The Uncomfortable, 2015

 

bell hooks è stata una femminista e docente afroamericana, nonché teorica della pedagogia impegnata. Seguendo il principio secondo cui il sapere è potere, ha concentrato la sua azione politica nell’università in quanto luogo di produzione del sapere, che esercita potere quando cede all’inculturazione e narra La Storia come sequenza data di avvenimenti, unica e monolitica. Spesso questo processo si accompagna ad un modello educativo depositario, che vede le persone studenti come consumatrici passive piuttosto che come responsabili attive della costruzione di contenuti.

L’architettura ostile, Panopticon contemporaneo, oltre che imbrigliare il nostro modo di vivere lo spazio pubblico, può simbolicamente essere assimilata alle strategie di colonizzazione nella progettazione dei programmi didattici, quando il sapere si esaurisce nell’elencazione delle teorie e delle conquiste del maschio bianco occidentale (tanto per fare un esempio), relegando tutti gli altri comportamenti culturali fuori dal canone. Le persone discenti vengono così formate a continuare il lavoro nei ruoli di dominio che occuperanno, riproponendo i modelli escludenti che sono stati loro inculturati.

bell hooks ci esorta, in modo radicale, a diventare persone critiche nei confronti di ciò che attraversa i nostri occhi e le nostre menti, proponendo prassi per la ricostruzione, necessaria dopo aver smontato postulati che da sempre abbiamo creduto indiscutibili, datità sulla cui veridicità non abbiamo fatto esercizio di messa in discussione. Come può, quindi, l’azione critica diventare atto di rivoluzione contro-egemonica, gesto di resistenza e pratica di libertà?

 

Katerina Kamprani, The Uncomfortable Key – The Uncomfortable, 2017

 

Cimentiamoci subito, impegnandoci in un compito di generalizzazione. Prendiamo alcune delle considerazioni di bell hooks sulla pedagogia, e al posto delle “persone studenti” proviamo a inserire le “persone cittadine”, pensando all’aula come se fosse la città. Potremmo tentare di:

  • considerare le persone cittadine nella loro peculiarità, valorizzando l’esperienza individuale;
  • costruire architetture flessibili, allo scopo di creare una comunità aperta in apprendimento, nella quale è incoraggiata la messa in discussione dei pregiudizi che rinforzano i sistemi di dominio (razzismo, sessismo, sfruttamento di classe, imperialismo);
  • promuovere la coscientizzazione di chi è responsabile delle politiche amministrative sui propri posizionamenti, e sul prendersi cura di sé: per sfuggire al panottismo chi esercita potere ha la responsabilità di essere un individuo realizzato, di permettersi di essere vulnerabile, di condividere le proprie narrazioni;
  • porre attenzione al tokenismo, che vuole “includere” persone marginalizzate senza però riservare loro le stesse opportunità di cui gode la maggioranza;
  • rendere la città un ambiente democratico in cui tutti sentano la responsabilità di contribuire alla gestione dello spazio pubblico;
  • interrogarci su abitudini e idee consolidate, parlando del disagio che può causare prenderne consapevolezza e attivare il cambiamento;
  • considerare la progettazione urbana come luogo di guarigione, dove immaginare futuri e alternative possibili.

Le parole nascono senza onta, ma con il decoro si fa davvero fatica, perché anche l’etimologia lo mette all’angolo. Deriva infatti dal latino decorus, affine a decēre, cioè  “esser conveniente” o “essere decente”. Ma quanto è stretto il canone della decenza quando, a fianco di una Storia maggiore, abbiamo una miriade di storie minori che la maggioranza non si prende la briga di ascoltare?

Perseguire il decoro ci allinea all’obiettivo del padrone, usa per quello la nostra resilienza. Metti che un giorno ci capiti di trovare gradevoli i poggiabraccia che dividono una panchina in tre sedute, impedendo di fatto a una persona di sdraiarsi. Foucault descriverebbe questi divisori, così incolpevoli e quasi non rimarcabili, come “piccole astuzie dotate di grande potere di diffusione, disposizioni sottili, d’apparenza innocente, ma profondamente insinuanti, dispositivi che obbediscono a inconfessabili economie o perseguono coercizioni senza grandezza”.

La prossima volta che vorrete sedervi, e non troverete una panchina, sappiate che il processo contro l’indecenza dei vostri bisogni è appena iniziato.

Mica c’è necessità di abitare il margine, di essere homeless, rifugiati, o alla ricerca di sostanze illegali o luoghi dove utilizzarle.

Mica ci saranno atti d’accusa manifesti.

Ricordate: nella microfisica del potere, sono i dettagli a fare la differenza.

Letture
Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi (1976)
bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica di libertà, Meltemi (2020)

Visioni
Katerina Kamprani, The Uncomfortable

Call to action
hostiledesign.org

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