Nido di vipere, film meticcio

0
114

 

Nido di Vipere, film sud-coreano girato nel 2020 ma distribuito in Italia solo dal 15 settembre di quest’anno, può, a mio parere, essere definito un film meticcio sotto molteplici e anche speculari angoli di osservazione.

Innanzitutto dal punto di vista narrativo in quanto mescola efficacemente la sintassi noir, da vero e proprio poliziesco americano anche nella sua declinazione francese, con i ritmi mimetici ed espressivi della tradizionale drammaturgia del Far East, con quelle inflessioni e suggestioni morali che sembrano appartenere più alla tradizione confuciana che alla nostra cultura occidentale.

Una sorta di mutazione nel farsi stesso del racconto, che piega e trasfigura la struttura espressiva allo stesso modo con cui i cosiddetti Manga hanno definitivamente modificato, se non deviato, la figuratività del fumetto occidentale tradizionale.

 

 

Ne è evidenza il permanere di quegli eccessi, talora grotteschi e quasi macchiettistici, della recitazione e della stessa fotografia, nell’uso dei colori di contrasto ad esempio, in cui precipitano le maschere del teatro tradizionale, in modo tale che nei singoli personaggi prevalga un aspetto appunto universalisticamente moraleggiante rispetto ad una più singolare indagine psicologica, con una accentuazione conseguente dell’influenza del destino (i demoni che ci circondano nella natura e nella cultura) rispetto anche a quella della casualità.

Quegli stessi personaggi che nei titoli di coda vengono infatti ridisegnati come maschere ovvero come veri e propri segni pittografici.

Ma anche dal punto di vista storico questo effetto meticcio (evidente anche in alcune delle maschere recitanti) emerge man mano nella rappresentazione di una società, come quella sud-coreana, e ancor prima quella giapponese, in cui i modi occidentali hanno penetrato i comportamenti, culturali e sociali, tradizionali senza del tutto sostituirli ma appunto incistandoli e così deformandoli, se non spesso avvelenandoli profondamente.

Tutto ruota intorno ad un borsone Louis Vuitton strapieno di denaro nel quale cercano realizzazione i diversi, contrapposti ma in fondo speculari, desideri dei vari personaggi che si affacciano sullo schermo, intrecciandosi nel racconto. È un andare e venire nel tempo, un dentro e fuori di intimità e ambizioni incapaci di una direzione precisa. Al di sopra (o anche al di sotto) della casualità che sembra dominare, trasuda invece una sorta di disegno inconsapevole che la natura/mondo manovra nonostante noi, un disegno che sembra muoversi al solo scopo di ritornare instancabilmente al suo principio (inteso come inizio ma anche come fondamento).

 

 

Il tema/problema del denaro come valore fondante delle società neo-liberali, dunque, come unico elemento di riscatto e di realizzazione di sé che però arriva a pervertire la coscienza di quello stesso sé, perduto e sbilanciato su orizzonti allogeni, onirici e in fondo irrealizzabili. Il denaro come alienante uscita da valori di una società tradizionale ma ancora desiderata per qualcosa che forse mai apparterrà loro pienamente.

Così i personaggi che popolano il film risultano, anche contro l’apparenza che vogliono darsi, tutti in qualche modo degli “sradicati” che non a caso vivono la loro, a volte breve, esistenza dentro una città portuale, per sua natura fluido confine tra passato e presente, tra vita e morte come nell’altrettanto bello film cinese La donna del fiume.

Film debutto del quarantenne Kim Yong-hoon, con una sceneggiatura di provenienza letteraria, e già pluripremiato, non nasconde le sue suggestive più prossime influenze (dai fratelli Coen a Tarantino, già capaci di filtrare la tradizione del poliziesco post-bellico) anzi, come detto, le utilizza per i suoi spericolati e diacronici salti narrativi che, come le tessere di un puzzle, alla fine compongono un quadro di coerente efficacia figurativa e significativa, cui l’ottima performance degli attori conferisce l’ulteriore definitivo collante.

La bella fotografia infine restituisce con efficacia e fascino quel luogo fluido e di passaggio, potente metafora dell’esistere di oggi.

 

NIDO DI VIPERE Genere: Giallo, Drammatico, Thriller Anno: 2020 Regia: KimYong-hoon Attori: Do-yeon Jeon, Jung Woo-sung, Bae Sung-Woo, Yuh-jung Youn, Shin Hyeon-bin, Jeong Man-sik, Jin Kyung, Ga-ram Jung,Jun-han Kim Paese: Corea del Sud Durata: 108 min Distribuzione: Officine UBU Sceneggiatura: Yong-hoon Kim Fotografia: Tae-sung Kim Montaggio: Meeyeon Han. Musiche: Nene Kang. Produzione: Megabox Plus M.

.

Previous articleMarlene Kuntz: “Save The Planet” è il grido di Karma Clima
Next articlePFM: festa dei 50 anni a Bologna!
Ho conseguito la Laurea in Estetica al DAMS dell'Università di Bologna, con una tesi sul teatro di Edoardo Sanguineti, dando così concretezza e compimento alla mia passione per il teatro. A partire da quel traguardo ho cominciato ad esercitare la critica teatrale e da molti anni sono redattrice e vice-direttrice di Dramma.it, che insieme ad altri pubblica le mie recensioni. Come studiosa di storia del teatro ho insegnato per vari anni accademici all'Università di Torino, quale professore a contratto. Ho scritto volumi su drammaturghi del 900 e contemporanei, nonché numerosi saggi per riviste universitarie inerenti la storia della drammaturgia e ho partecipato e partecipo a conferenze e convegni. Insieme a Fausto Paravidino sono consulente per la cultura teatrale del Comune di Rocca Grimalda e sono stata chiamata a far parte della giuria del Premio Ipazia alla Nuova Drammaturgia nell'ambito del Festival Internazionale dell'eccellenza al femminile.