La Compagnia ravennate ErosAntEros, diretta da Davide Sacco e Agata Tomšič, debutta con Libia, spettacolo tratto dall’omonima opera di graphic journalism di Francesca Mannocchi, reporter di guerra, e Gianluca Costantini, artista-attivista, edita da Mondadori.
La prima nazionale avrà luogo martedì 18 ottobre a Potenza, nei giorni successivi lo spettacolo sarà a Trieste e a Brescia. Anteprima romagnola a Bagnacavallo, in Piazza della Libertà, venerdì 14 ottobre alle ore 21, al Festival Strati della Cultura organizzato da ARCI, anche sostenitore dello spettacolo.
Tre gli elementi fondamentali di Libia: voce, musica e disegni animati. Quali espedienti avete escogitato affinché immagini e suoni non fungano, come quasi sempre accade, come mera decorazione, illustrazione o -ancor più subdolamente- pompaggio emotivo rispetto al contenuto semantico delle parole dette in scena (rischio ancor più alto quando si tratta di temi così “densi”)?
Come ha fatto Gianluca Costantini proponendo a Francesca Mannocchi di trasformare in un’opera di graphic journalism i suoi reportage, così noi abbiamo trasformato le potenti immagini e parole del loro libro in uno spettacolo multidisciplinare. Non abbiamo aggiunto molto a livello di contenuti, ma ci siamo messi al servizio del testo e delle immagini da cui lo spettacolo è tratto, li abbiamo tradotti nel nostro linguaggio espressivo e abbiamo lavorato in sala prove sulla loro esecuzione dal vivo per condividere la nuova opera che in tal modo ha preso forma con le persone. Abbiamo evitato sin dal primo istante la rappresentazione, affidandola piuttosto alla proiezione dei disegni e alla loro animazione. Ne è nato un lavoro semplice, essenziale, in alcuni momenti delicato e in altri più forte, come la vita delle persone che si incontrano nel libro, suddiviso in 6 capitoli che corrispondono a 6 reportage di Francesca Mannocchi, ciascuno dei quali apre squarci e linee d’interpretazione diversi da quelli che ci vengono forniti dai media quotidianamente.
Tra complessità e semplificazione: parlando di graphic journalism, vien da pensare a un linguaggio che possa rendere più digeribili questioni affatto stratificate. È così? Parallelamente, come avete lavorato per far sì che il vostro spettacolo non sia altro che un “Bignami” della questione di cui vi occupate?
Quando abbiamo letto il libro nel 2019 ci ha subito colpiti per la semplicità e immediatezza con cui riusciva a restituire temi e questioni complicate, rendendoli alla portata di tutti attraverso l’umanità delle storie raccontate. A differenza di altri nostri lavori frutto di percorsi di ricerca e composizione pluriennali, in questo caso lo studio preventivo, che precede la composizione dello spettacolo, è stato fatto sul campo da Francesca e poi rifratto da Gianluca e dalla sua capacità di aprire mondi attraverso il disegno.
Noi non abbiamo aggiunto quasi nulla, se non l’aspetto sonoro, che nel libro, ovviamente non era né presente né previsto. Rispetto ad altri nostri lavori, anche dal punto di vista performativo abbiamo lavorato in sottrazione, mettendoci da parte, “al servizio” di contenuti che volevamo condividere con le persone attraverso il nostro linguaggio espressivo. Le vere protagoniste dello spettacolo (come del libro) sono le storie delle persone che vivono in Libia o l’hanno attraversata nell’ultimo decennio. Sono le loro verità a prendere voce, suono e immagine. E speriamo che uno dei pregi dello spettacolo (come già del libro) possa essere quello di far capire che la verità e la responsabilità di ciò che accade non è mai una sola.
Da molti anni, Davide e Agata, siete coppia d’arte e di vita. Quali sorprese, linguisticamente parlando, ha portato questo nuovo oggetto di indagine?
È un lavoro che ci ha sorpreso per la sua “semplicità”, in tutti i sensi positivi che questa parola può avere. Il processo di creazione è stato spontaneo e molto piacevole, probabilmente anche per le belle collaborazioni che lo spettacolo ci ha permesso di attivare.
Di diverso, rispetto ai nostri lavori precedenti, c’è in primis il modo di porsi di fronte un’opera di partenza particolare, un “fumetto d’inchiesta”, ed eliminare i cliché che certo teatro di rappresentazione e di narrazione inevitabilmente rischia di portarsi dietro, provando piuttosto a ricercare musicalmente e nella voce per dare forma a un racconto attraverso più livelli (parola, disegni, musica) che trova casa soprattutto nel senso dell’udito e non soltanto nei significati delle parole. In questo il lavoro con Bruno Dorella è stato fondamentale e lo abbiamo amato molto proprio per la capacità della sua musica di aprire mondi e di accompagnare lo spettatore in percorsi all’interno di essi. L’altro elemento fondamentale sono stati i disegni di Gianluca Costantini: talmente forti e netti da portarci a decidere di farli parlare da sé, senza aggiungere altro a livello visivo, neppure i costumi degli interpreti in scena. Le loro animazioni, sono state create da Majid Bita e Michele Febbraio in stretto rapporto con Davide, che li ha spinti a montarle sulla partitura sonora-vocale attraverso un lavoro lungo e meticoloso, simile alla sonorizzazione di un film, ma in un certo senso al contrario (costruendo cioè le animazioni video sulle tracce audio registrate durante le prove).