L’opera dell’arte: su Andante di Faber Teater

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ph Diego Diaz Morales

 

Iniziamo dal fondo: da una scomparsa, o meglio da una sottrazione.

E da alcuni fantasmi.

No hay caminos, hay que caminar: l’antica iscrizione trovata in un chiostro di Toledo (a cui anche Luigi Nono si ispirò per l’omonimo brano dedicato a Andrej Tarkowskij) è al centro della partitura che Antonella Talamonti ha composto per i corpi-voce dei sei artisti-artigiani del Faber Teater e che ha chiuso, in sottrazione, il debutto di Andante, avvenuto l’11 settembre 2022 nei dintorni dell’Abbazia di Vezzolano ad Albugnano (AT).

In sottrazione: dopo un cammino fenomenologico fra le colline, a tappe, i sei si allontanano, progressivamente, fino a scomparire, permettendo allo sguardo, e al cuore, di allargarsi.

Ci vuol talento, per un finale così. E umiltà. E un progetto.

Il progetto, qui, si può forse definire, etimologicamente, estetico – termine che, vale forse ricordarlo, nella settecentesca origine filosofica rimanda alla conoscenza attraverso i sensi.

Ci invita a stare in un qui qui qui e in ora ora ora, questo dispositivo morbido ed esortante, che pur lontanissimo dalle asperità linguistiche delle neoavanguardie anni Settanta di quel modo-mondo mantiene, e ravviva, il fuoco sulla funzione dell’arte.

 

ph Concentrica Festival

 

Opera dell’arte prima e più che opera d’arte, dunque.

Gli artisti-artigiani di Faber Teater, organicamente, non si pongono come oggetti di ammirazione per una téchne invero a lungo e con estrema cura raffinata, ma danno luogo a una esperienza che tra il cantare e l’andare -i due poli attorno ai quali questo accadimento prende forma- si offre come invito a stare nel qui, nell’ora.

Per far ciò, Faber Teater ha costruito un dispositivo che, in vece di narrazioni e fabule atte a portar lo spettatore in un altrove (secondo una dinamica convenzionalmente teatrale basata sulla sospensione dell’incredulità e sul dimenticarsi: della realtà circostante così come delle proprie angustie), propone una concatenazione di accadimenti il cui cuore sta nella ricezione.

Teatro nella mente dello spettatore, direbbe Romeo Castellucci.

E nelle orecchie, e nei passi, sembra aggiungere questo Andante.

In tal senso muovono anche i testi, elaborati dal gruppo in collaborazione con lo scrittore Gian Luca Favetto: raffinati giochi di parole e precise assonanze, in un intreccio di registri linguistici proteiformi (che spaziano dal lirico al popolare, dall’intimismo all’imbonimento da fiera) pongono spesso in primo piano il significante rispetto al significato.

Come non pensare a 18 Happenings in 6 Parts, che Allan Kaprow presentò alla galleria Reuben di New York nell’autunno del 1959? Anche lì, come in questo Andante, in diversi momenti non era possibile fruire integralmente dell’opera, dovendo dividersi, come spettatori, in sottogruppi e dunque riceverne solo alcuni frammenti.

È neoavanguardistica, ancora, la cageiana esperienza di 4’33’’ che Faber Teater chiama a vivere: l’opera è il mondo, sembrano dirci, e l’artista non è, romanticamente, colui (colei) che rende visibile l’invisibile, piuttosto colui (colei) che, con attitudine radicalmente contemporanea, rende visibile il visibile.

Qui, meglio: udibile l’udibile. Ma insomma, ci siam capiti.

 

 

Procedendo a ritroso in queste note, a mo’ di moviola, affiorano le voci, che senza scomodare chi di ciò ha scritto con grazia e sapienza, certo è esperienza condivisa quanto siano al contempo elemento concretissimo e impalpabile, materico e aereo, organico e spirituale.

Fantasmatico, appunto.

Procedendo a ritroso, si diceva, arriviamo fino al punto di partenza, con gli spettatori in piedi al centro di una piazzetta e tutti gli attori-artigiani attorno, issati su piccoli sgabelli.

“Siamo qui”, dice Lodovico.

“Siamo qui” ci dice l’arte, questa arte che fa.

“Siamo qui”: dal vivo, tra vivi.