Lo spettacolo conclusivo del 62° Plautus Festival è stato Agamennone con Massimo Venturiello, una messa in scena del testo di Ghiannis Ritsos condito con estratti dal testo classico di Eschilo.
La storia è quella del ritorno a casa del re Agamennone, dopo la vittoria sul regno di Troia. Qui, il sovrano viene accolto e poi ucciso a tradimento dalla moglie Clitemnestra e dal suo amante Egisto. In questa messa in scena, riprendendo il testo di Ritsos, al centro ci sono lunghi soliloqui di Agamennone che riflette su di sé. Questi sono spezzati dagli interventi di alcuni personaggi che, seguendo il testo di Eschilo, interagiscono tra loro. Sono il coro, Clitemnestra e Cassandra, profetessa di Troia presa schiava da Agamennone. Tutti interpretati da un gruppo di giovani e capaci attori, perlopiù provenienti dal Laboratorio di Alta Formazione Officina Pasolini. A tutto ciò si aggiunge che i personaggi, Agamennone compreso, in alcuni momenti si lasciano andare al canto, interpretando canzoni scritte appositamente per lo spettacolo da Germano Mazzocchetti.
Al centro di questo spettacolo c’è un volto, a cominciare proprio dalla locandina. Qui, sul nero dello sfondo splende un viso dorato: quello della maschera di Agamennone (il reperto rinvenuto a Micene). Ma questo viso è in secondo piano, seminascosto dal volto di Massimo Venturiello, interprete di Agamennone e quindi, in un altro senso, sua maschera. Due volti, due facce dello stesso personaggio, in uno spettacolo che accosta due testi, di Eschilo e di Ghiannis Ritsos, nei quali Agamennone è molto differente. Il re del testo di Eschilo ricorda la maschera d’oro della locandina: è un eroe epico, di stampo antico, splendente, circondato di personaggi. Ma è relegato quasi subito in secondo piano, proprio come la maschera, lasciando la parola all’uomo in carne e ossa, l’Agamennone di Ritsos indossato da Massimo Venturiello, vecchio, solo, confuso e pieno di rimpianti.
Il volto è convenzionalmente sinonimo di identità (in latino il termine persōna indica proprio la maschera) e il problema dell’Agamennone di Ritsos sembra proprio quello dell’identità. È un uomo assalito dai dubbi che non riconosce più sé stesso. Lui era Agamennone, l’eroe, la maschera d’oro, ma ora non si riconosce più in quel volto. È un uomo che si è lasciato alle spalle l’età dell’oro, dove gli dei indicavano il cammino, e procede a tentoni in un mondo senza più direzione. Un dramma ben esplicitato da quello che scrive Clive Staples Lewis nel suo romanzo mitologico A viso scoperto: “Capii perché gli dei non ci parlano apertamente, né ci lasciano rispondere. Come possono incontrarsi con noi faccia a faccia finché non avremo un volto?”.
Questo Agamennone non ha un volto: quello dorato è relegato al passato, quello in carne e ossa è un morto che cammina, come ha affermato in un’intervista anche Massimo Venturiello. Questo Agamennone è solo, nonostante sia circondato di personaggi: la moglie Clitemnestra, la profetessa Cassandra e il coro. Tutti giovani interpreti che accentuano il contrasto con un Agamennone avanti negli anni. Mentre lui è riflessivo e statico, loro si agitano, dialogano, ballano. Lui parla con le parole di Ghiannis Ritsos e loro con quelle di Eschilo.
L’unico linguaggio comune a tutti i personaggi è quello musicale. Un’aggiunta rispetto a entrambi i testi, che rimarca gli stati d’animo e i concetti espressi e li veicola con la ripetizione e la musica.
In conclusione, Agamennone è uno spettacolo di impostazione classica, che offre un’opportunità a giovani attori e presenta un’operazione interessante nell’accostamento dei testi. È un’opera che fa della maschera il suo simbolo, proprio come il festival che conclude.