Conosco due itinerari di collina in cui lo sguardo non si apre solo sugli alberi, le vigne ordinate e i fienili che esse sostengono ma può afferrare la testimonianza, viva, dell’incontro di due pittori con il paesaggio. Un tempo, quello trascorso ad osservare le lontane colline e le basse montagne fittamente coperte di verde, che è in sintonia con l’invisibile materia che permea le opere di Giorgio Morandi e Felice Casorati.
La stanzialità estiva, quella che chiamavamo villeggiatura, permetteva ad entrambi di concentrarsi su quel poco di mondo che nei loro dipinti diventava forma, quella essenziale delle minime (quindi gigantesche) cose.
Ho scelto di andare a Pavarolo in Piemonte, dove Casorati aveva uno studio a strapiombo sulla valle, pur sapendo che l’avrei trovato chiuso. Sapevo che avrei colmato il disappunto godendo sobriamente di quel che circondava la casa, lo speravo prima ancora di arrivare, percorrendo il tratto di campagna che da Torino porta ai colli. Ho guardato e mi sono commossa per l’assenza di ciò che speravo tanto di vedere e ho ricordato, rileggendo tempo dopo Christian Bobin in Abitare poeticamente il mondo che avevo “qui sotto gli occhi, qui in questo bosco, qualcosa di molto più prezioso di quanto un museo potrà mai offrire”.
Pavarolo è un piccolo borgo, poco lontano dalla basilica di Superga e un giorno che lui e la moglie, Daphne Maugham, stavano passeggiando lei vide una casa che le piacque e per scherzo disse a Felice “Comprami quella casa”. Lui la comprò e la cascina non perse mai l’odore di fieno e stalla. Nel 1934 la ritrasse seduta alla finestra di una stanza che affaccia a picco sulle colline: lei in una posa di calma solitaria ha gli occhi chiusi e le mani giunte, la testa arrovesciata leggermente all’indietro nell’aria fresca, l’intera figura inondata di luce e alle spalle una vallata di pezzature verdi, grigie, grigio celesti e brune, digradanti dalla cima verso il basso.
Solo quando ho potuto sedere a lungo su una panchina, accanto al suo studio, ho realizzato perché volevo essere lì a dispetto dell’inavvicinabilità del luogo. Si tratta di una confidenza sentimentale.
Osservando notiamo che la figura è ancorata alle mani solide ed è ritratta nella sua certezza fisica, “una presenza reale dentro un paesaggio reale che (…) scivola e si raddoppia sui vetri specchianti della finestra in una continuità tra l’esterno e l’interno, tra l’atelier e il mondo” scrive Giorgina Bertolino. Eppure a me è sempre parso che lei stia per lasciarsi andare, per involarsi e che il suo stato d’animo sia dilagante.
Volevo sentirmi come Daphne e sono andata a cercarla.
La casa, anzi le case di villeggiatura di Giorgio Morandi e delle sorelle sono invece da sempre una meta costante. Ogniqualvolta mi prende l’urgenza di Appennino e salgo in montagna poi devio per Grizzana. La prima volta ci andai per lavoro: dovevo catalogare delle raccolte di cataloghi d’arte alla biblioteca che aveva sede ai Fienili del Campiaro. Che fosse soggetto privilegiato della sua pittura all’epoca lo ignoravo beatamente. La sua attività di pittore la associavo a una sequenza infinita di bottiglie, barattoli, caffettiere e bicchieri. Poi un giorno lessi questa sua frase “andando in su proprio verso Grizzana, a un certo punto c’è una curva e lì, quando si esce dalla curva, c’è il più bel paesaggio del mondo”. Anche Giorgio Bassani aveva scelto un paesaggio di Morandi per la copertina delle sue Storie Ferraresi e ne scrisse anche una poesia “O tu cui lenta abbraccia la collina accaldata, / casa persa nel verde, esile volto e bianco, / solo tu durerai, muto, eroico pianto, / non resterai che tu, e la luce assonnata”.
Ci vorrebbe un altro racconto per parlare degli interni del suo studio ma se decidete di andare scegliete di farlo anche all’ora in cui è chiuso ai visitatori, quando la presenza umana appare unicamente nei segni che ha lasciato. Scegliete le ore inclini al silenzio e sarà più facile immaginarlo chiuso nelle due stanze di casa Veggetti quando, con l’ausilio di un cannocchiale, era solito richiamare in primo piano i particolari del paesaggio che più lo interessavano. Oppure andate per un viottolo di questa campagna d’Appennino e guardatelo mentre fa ritorno per pranzo, con il suo piccolo sgabello e un leggero cavalletto, ha gli orli dei pantaloni imbiancati dalla polvere della strada, la camicia senza colletto, porta con sé pochi disegni intatti e funghi, delizie che le sorelle avrebbero poi cucinato.
A me pare davvero che i suoi dipinti siano una soglia, poiché egli non riproduce ciò che vediamo: una casa, un filare di alberi, la schiena della collina, un sentiero. Niente di pittoresco o sublime, nei suoi colori ci tocca il silenzio. Superate quindi a piedi la canonica, la casa della fame e quella della sete, i mulinelli e il bosco dei Faieti. Tornate alla casetta che fece costruire su suo disegno, un disegno di bambino: un rettangolo dipinto di giallino, dalle grandi finestre, isolata dal resto. Io l’ho già vista e ne resto fuori, non ho voglia di visite guidate. Attraverso la strada e mi sporgo a guardare le colline tra la casa dei Veggetti (oggi in vendita) e i fienili.
Desiderio di involarsi.
Un viaggio meraviglioso nella magia del “non-luogo” che con le tue pennellate di parole fai diventare come sempre una sorgente di forti emozioni. Bravissima!!!
Comments are closed.