Corpo a corpo con Cesare Pavese. Intervista a Luigi D’Elia e Roberto Aldorasi

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ph Ilaria Scarpa

 

L’autore e interprete Luigi D’Elia e il regista Roberto Aldorasi sono da mesi al lavoro su una riscrittura scenica da La luna e i falò, che presenteranno in forma di studio giovedì 8 settembre alle ore 21 nel Cortile dei camminatori di domande Luciano Nattino a Castagnole Monferrato (AT) in una serata a cura di casa degli alfieri e venerdì 9 settembre, giorno del compleanno di Cesare Pavese, alle ore 17 nel giardino di Casa Cecilia a Santo Stefano Belbo (CN), nell’ambito del Pavese Festival 2022. 

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I materiali preparatori del vostro nascente spettacolo si aprono con un frammento del Vangelo di Luca. Quale senso del sacro si indaga, qui?

Roberto Aldorasi: Iniziamo con un domandone, ma vale la pena non girarci troppo intorno: sono tanti i riflessi del sacro che brillano nella materia di questo lavoro. Alcuni hanno a che fare con il mistero dell’origine e del destino di ognuno, con il legame al luogo in cui siamo nati e cresciuti, con il modo in cui un paesaggio contribuisce a modellare un’anima, con il rapporto con gli avi e con le generazioni future. Uno, in particolare, ha a che fare con la regione luminosa dello spirito in cui le parole e il pensiero si rigenerano in significati e pratiche nuove. Pratiche che a prima vista possono spaventare ma che, invece, sono l’abbraccio più caldo che un uomo in cammino possa ricevere.

Luigi D’Elia: Grazie per questa domanda, Michele. Che ci sia una dimensione del sacro in questo lavoro è una sensazione che si affaccia solo ultimamente in me, nonostante alcuni passaggi dai Vangeli siano presenti nel copione fin dall’inizio. Indubbiamente c’è un mistero in questa storia che ha a che fare probabilmente con il sacro che abbiamo dentro, come un continuo confronto con i vivi e i morti dentro di noi, che siano persone o ricordi. È un sacro che ha a che fare con una “scelta”, ecco di nuovo Gesù, la scelta di dove decidiamo di stare e di quanta dignità vivificante decidiamo di dare alla nostra vita, alla nostra anima. La mettiamo nella vita o la mettiamo nella morte? Sembra audace ma lavorando su questo romanzo è questa la cosa che mi torna: dove scelgo di stare? In compagnia di chi? Parlo di una dimensione interiore in questo caso. Spero di essere chiaro con queste mie parole ma questo lavoro è il primo per me che affronta in maniera ampia delle questioni interiori e quindi del sacro, sì. Il passaggio del Vangelo di Luca che di cui parli porta con sé l’invito di questo iniziato che è stato Gesù: stai con i vivi! E aggiunge: lascia che i morti seppelliscano i loro morti. Quanto è potente e deflagrante questa affermazione. Ti rendi conto di cosa dice davvero? È un capovolgimento. E in me tocca corde profonde, istante per istante.

 

Christian Boltanski, Le Théâtre d’Ombres, 1985-90

 

La vostra attuale ricerca pare muoversi tra due polarità, memoria e oblio, dal punto di vista individuale, civile e della natura. Come state delimitando un campo tanto smisurato?

Luigi: Non è facile in effetti, è una delle cose che ancora stiamo cercando di mettere a fuoco nel testo. Sembra che la memoria civile, quella privata e poi della natura siano cose lontanissime tra loro. Lo sono davvero? Certo è dura pensare che ci sia qualcosa di “vivo” (intendo di ancora generante) in certe manifestazioni di memoria civile che sono a volte solo retorica, nel migliore dei casi, altrimenti mero saccheggio. Probabilmente rimarrà una delle domande aperte del lavoro ed è giusto che sia così. Sono arrivati però degli aiutanti in questo: i conigli. Questi animali che nel copione hanno preso spazio a partire da un’immagine fugace nel testo di Pavese, hanno a che fare con la luna, con la terra ma anche con i morti della guerra appena passata. A volte penso che siano loro il tramite tra la dimensione civile, individuale e della natura e forse hanno solo il compito di smuovere la terra e fare qualcosa di arcano con i fili della memoria a prescindere dalla volontà dei protagonisti umani di questa storia.

Roberto: Da una parte attraverso l’esemplarità del mito, in questo caso quello del ritorno (impossibile) di Anguilla, ragazzo “bastardo” che emigra in America per poi tornare, adulto e arricchito, al suo paese dove ancora si contano i morti di una sanguinosa guerra civile. Dall’altra, consapevoli che il campo è destinato a restare aperto, ne abbracciamo delle porzioni con lo sguardo e restiamo a guardarle a lungo. Non riusciremo a raccontare tutto il paesaggio che abbiamo davanti agli occhi, ma conosciamo bene quella parte che è sopravvissuta nel nostro racconto.

E quali sorprese sta portando, attraversarlo?

Luigi: Che di certe cose possiamo solo conoscere una sottile scorza esterna. Meglio così. Ho letto molto riguardo i meccanismi della memoria dal punto di vista della medicina e delle neuroscienze negli studi che hanno preceduto la scrittura. Ad un certo punto ho capito che artisticamente era più sano evocarne solo un odore.

Roberto: Una mattanza di luoghi comuni, di pensieri che continuavo a dare per buoni anche se ne sospettavo da tempo. Ceronetti scriveva che i luoghi comuni non sono solo convinzioni innocue, ma assassini assetati di sangue. Sono d’accordo. A cadere sotto i loro colpi è lo sguardo attento e, insieme a questo, una vita attiva e ispirata. I luoghi comuni di cui il nostro tempo soffre in tema di memoria sono tanti mentre, per vivere il presente e desiderare il futuro, c’è bisogno di un patto più equo, direi sostenibile, con i ricordi individuali e collettivi. Soprattutto c’è bisogno di non continuare a rovistare solo nello scatolone della memoria per sapere chi siamo e dove dobbiamo andare: anche se il futuro è incerto e nebuloso, il passato non è il bene per definizione, in molti casi la sua lezione potrebbe non essere più valida.

 

ph Michela Cerini

 

Perché Pavese? E perché proprio questo testo, per partire?

Luigi: Sono stato profondamente innamorato de La luna e i falo’. È da tanto che desideravo lavorarci. Quando davvero l’ho ripreso in mano per questo lavoro sono rimasto sbalordito: non era il testo di cui ricordavo l’innamoramento. Sono arrivato a chiedermi perché mi avesse rapito così tanto nell’adolescenza. Mi sono detto che ora era un disastro: come avrei fatto a farci uno spettacolo? E invece alla terza rilettura, ecco, ho capito cosa mi aveva formato e plasmato così in profondità di questo romanzo e di tutta la prova di Cesare Pavese. Ed erano due cose: la sua cadenza nel raccontare e l’avanzare per impressioni, come in un quadro di Monet. Pavese biascica, mugugna, non capisci se dice dentro di sé o fuori, ha silenzi lunghissimi, fatti di parole, ma che sono silenzi: è il mio modo di narrare, ecco da dove viene, tra le altre cose. E poi Pavese vede una luce, uno scorcio, una macchia e la fa esistere facendone parola, esattamente come Monet, rendendo vivo non l’oggetto, ma quello che accade tra l’osservatore e l’oggetto: è il mondo che cerco nella mia scrittura. Era arrivato il momento di chiudere un conto.

Roberto: Non esiste uno scrittore che ha combattuto di più, fisicamente e intellettualmente, con le immagini del ricordo e col mito personale delle origini, con quel tempo fuori dal Tempo che è l’infanzia. Nessuno ha raccolto frutti più maturi e nascosti su questo argomento come ha fatto Pavese con La luna e i falò. O forse esiste qualcun altro, anche migliore, ma Cesare è quello che più di tutti ti spinge ad una carezza, per lui e per te stesso. Ed è una carezza infinitamente tenera, anche se le nocche delle dita sono insanguinate e piene di schegge di vetro.

Come avete trattato le sue parole, drammaturgicamente e scenicamente?

Luigi: È una sfida ancora in corso e che probabilmente si risolverà per la maggior parte quando arriverà la memoria del testo (un’altra memoria ancora!). Il lavoro è una riscrittura e questo sia perché La luna e i falò è un lunghissimo adagio che aveva bisogno, almeno così sentivo io, di picchi nuovi, sia perché la parola scritta di Pavese è così terribilmente bella sulla carta e così terribilmente inadatta a stare tra i denti. Masticarla e risputarla senza tradirne la bellezza ma comunque trovandone un’oralità moderna sta avvenendo gradualmente. Anche per questo abbiamo avuto l’esigenza di effettuare da subito più studi con il pubblico già dal copione, più e più volte, e da subito con un pubblico vero.

Roberto: Abbiamo cercato di restituire loro tutta la vita che vi scorre dentro, di farne un vetro trasparente e non più opaco con gli strumenti di cui disponiamo, che non sono affatto letterari, ma vivi. Le nostre sensibilità hanno fatto da prisma per scomporre la luce della luna e dei falò di Pavese poi, una volta trovato il modo di riaccordare tutte le frequenze di quella luce che abbiamo deciso di tenere, il corpo di Luigi, gli oggetti scenici, lo spazio e il modo di abitarlo ne sono diventati lo specchio, necessariamente infedele.

 

Christian Boltanski, Zeyt, 2001

 

A tal proposito: dal punto di vista visivo quale immaginario sta nutrendo la creazione? 

Roberto: Nel vivaio delle immagini di riferimento ci sono le visioni velate e le trasparenze di Boltanski, la luce e i set di certi dipinti di Hopper, film e musiche (anche le musiche scatenano la visione!) che raccontano l’America, sia quella mitica delle epopee dell’Ottocento che quelle tristemente contemporanee delle zone al confine tra USA e Messico, un’America che oscilla tra la Promised Land e la terra cinica, razzista e violenta figlia di una promessa tradita. Pavese si definiva un narratore americano-piemontese e questo allestimento dialoga col suo personale sogno americano, quello di un traduttore e studioso mai stato negli USA ma che, in piena era di imbalsamazione fascista, traduceva e diffondeva in Italia la letteratura americana: informale, passionale, eversiva.

Luigi: Da subito Christian Boltanski: il suo lavoro visivo sulla memoria, l’evanescenza e lo stare, la poesia delle presenze invisibili sono stati fonte di ispirazione importante. Se tutto andrà come prevediamo la scenografia sarà un dichiarato omaggio alla sua arte. E poi un deserto. Un ampio infinito deserto tra il Messico e gli Stati Uniti. È arrivato dalle pagine di Pavese e ci ha portato via da subito. Siamo convinti che da qualche parte ci sia anche un puma a guardare la scena. Ma questo forse lo saprò solo io.

 

Christian Boltanski, Animitas Chili, 2014

 

Luigi, quali sorprese, smottamenti e deviazioni obbligate l’incontro con questa storia sta portando, rispetto al tuo modo abituale di raccontare?

Me ne viene in mente ora una sola e la più grande: rompere il filo di una narrazione lineare. Voglio capire cosa accade se quell’avanzare “impressionista” di cui parlavo in precedenza permea anche la narrazione e questo vuol dire dalla scrittura alla presenza del corpo e della voce in scena. Vedremo cosa accadrà, ma la ricerca, se mai ci riusciremo, è quella di avvicinare il corpo della narrazione (scrittura, voce, corpo, relazione con il pubblico, pubblico) a un “buco nero” che ne dilati e trasfiguri lo sviluppo. Te ne sto facendo un racconto quasi fantascientifico, ma è tutto molto semplice nei fatti. Come stare tra il sogno e la veglia. Il tempo non muore, il cerchio non è tondo, si dice nel film bellissimo di Mančevski. Vogliamo stare lì.

Roberto, quali attenzioni e quali astuzie richiede, dirigere un artista dalla personalità scenica ben definita e riconoscibile come Luigi?

Bisogna ascoltare e guardare tanto prima di iniziare a chiedere cose a Luigi, per capire quali sensi e quali desideri (friccichi, come dice lui) lo orientano in una materia, una sensazione questa che ricordavo bene dalla prima volta che lo avevo guidato ne Il giardino delle meraviglie quasi dieci anni fa. Nel caso de La luna e i falò forse guidare non è la parola giusta, come neanche dirigere: abbiamo entrambi una forte vocazione autoriale, perciò procediamo piantandoci a vicenda, ogni giorno, dei semi di pensiero drammaturgico e scenico per poi vedere il raccolto che portano dopo un giorno, una settimana, un mese oppure mai.

 

Christian Boltanski, Twilight (Crépuscule), 2015

 

Quando e dove debutterà lo spettacolo?

Roberto: Te lo racconta Luigi, che ne è anche il produttore! 

Luigi: Ci stiamo lavorando. Non è stato facile trovare sostegno e progetti di residenza. Momento complesso per le Compagnie indipendenti. Anche sei fai decine di date al mese. Ma intanto una buona notizia e una data ci sono: 27 gennaio 2023 anteprima per il pubblico al Teatro Comunale di Antella (Firenze) al termine di una preziosa residenza curata da Archètipo.

Buon lavoro!

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Roberto Aldorasi (regista e autore) Nato e cresciuto nell’Osso d’Italia dove le case sono in vendita a 1 euro (Irpinia), ha lavorato con il teatro di prosa, la narrazione, la danza e l’opera lirica, il site specific e il teatro di comunità in Italia, Francia, Danimarca, Regno Unito, Polonia, Russia, Libano. Tra le collaborazioni più importanti quelle con Eugenio Barba e l’Odin Teatret, Giorgio Barberio Corsetti, Alessio Boni, Simone Cristicchi, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, Francesco Niccolini.

Luigi D’Elia (attore, autore, scenografo) Ha portato in scena la stagione d’oro di Jack London, l’amore senza paura di Don Milani, lupi, naufragi, foreste e storie selvagge. Soprattutto storie selvagge. Dalla sua ricerca materica e di parola sul racconto della natura sono nati spettacoli, progetti d’arte pubblica, festival, pubblicazioni, progetti di forestazione partecipata. Collabora da oltre dieci anni con Francesco Niccolini. Ha lavorato inoltre con Bevano Est, Claudio Prima, Radiodervish, Giorgio Albiani, Roberto Aldorasi, Emanuele Gamba, Fabrizio Saccomanno.

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