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La settima edizione di Ibrida – Festival Internazionale delle Arti Intermediali ospiterà, domenica 18 settembre alle 20.30 negli spazi di EXATR, in via Ugo Bassi 16 a Forlì, un focus, a cura della ricercatrice Silvia Grandi, docente dell’Università di Bologna, dedicato all’artista visivo Marcantonio Lunardi.
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In attesa di ascoltarti di persona a Ibrida Festival e di vedere alcune tue opere, a favore di chi non conosce il tuo lavoro ti faccio una domanda, mi rendo conto, larghissima e anche un po’ scivolosa: cosa per te è arte e cosa non lo è?
Definire che cosa è arte è un argomento decisamente sfuggente e sdrucciolevole. Sono state scritte pagine e pagine su questo tema senza mai giungere a una sintesi definitiva.
Proverò a risponderti in modo indiretto, descrivendo chi realizza l’arte e parlando di come io lo faccio in quanto artista.
L’artista ha la capacità di destrutturare la realtà e ricombinarla con linguaggi e tecniche proprie che cambiano a seconda del punto di vista e della finalità.
Chi si pone in una prospettiva artistica non è solo un creativo che mette in opera delle tecniche espressive.
Dal mio punto di vista l’artista deve avere un solido senso critico, perché l’approccio ai temi che affronta è sempre politico anche quando non parla di politica. La scelta di un colore a olio, il gesto di un performer, l’inquadratura di una fotografia sono azioni radicalmente legate alla cultura di chi le mette in pratica e alla sua visione della società, dunque alla sua visione politica.
Politikòs fa riferimento alla polis, alla città, che non è solo un luogo fisico ma è soprattutto un luogo sociale, l’ambiente umano che abitiamo tutti quanti noi. Dunque, anche chi dice di rinunciare alla politica, che se ne renda conto o no, si misura ancora una volta con la politica perché nella politica si svolgono tutte le interazioni umane, compreso il rifiuto.
In questo contesto di relazioni e interazioni di corpi e pensieri, l’artista è un ricercatore visionario con una certa propensione all’egocentrismo poiché parla sostanzialmente di sé e della sua visione del mondo. Anche se nel parlare di sé include il suo modo di relazionarsi con gli altri sia come singole persone sia come società strutturata.
Un artista è un creativo propenso al viaggio immobile, a un percorso di conoscenza e di auto-conoscenza attraverso l’espressione di sé. Una sorta di eterno esiliato che percorre vie sperimentali alla ricerca della propria voce.
Un artista è qualcuno che rende visibile la propria interiorità e quindi si rende inevitabilmente vulnerabile, si mette in gioco, perché quello è il modo in cui ha imparato a comunicare con il mondo.
Un artista è un narratore delle storie dell’oggi con lo sguardo rivolto al futuro. Un mediatore tra ciò che siamo, ciò che siamo stati e ciò che saremo. Non come Cassandra che sapeva prevedere il domani ma piuttosto come un animale che avverte le vibrazioni della terra in continuo movimento e prova a dar loro una rappresentazione.
La tua ricerca con il video si colloca al confine tra il cinema del reale e la videoarte. Penso a mia zia, che quando andava al cinema spesso rafforzava il suo eventuale apprezzamento dicendo: “E poi è tratto da una storia vera!”. Detto meglio: spesso l’indice di artisticità è direttamente proporzionale al rapporto percepito di vicinanza dell’opera con il reale. Quanto ciò è vero nel tuo caso? Detto meglio: quale trattamento fai, del dato di realtà, nei tuoi lavori, in particolare quelli che sarà possibile vedere a Ibrida Festival?
Tutta la mia produzione video si basa sull’elaborazione di temi collegati al tempo che sto vivendo e alla società in cui sono immerso. I miei lavori parlano dell’urgenza del qui e ora, anche quando sono imbrigliati dentro forme stilistiche e rappresentazioni estetiche che li rendono forzatamente immobili.
L’immobilità che si vede nei miei lavori non è calma né serenità, è solo un controllo delle pulsioni, indispensabile per convogliare un pieno di sentimenti talmente grande che finirebbe per essere solo un grido senza parole. L’immobilità dei miei lavori rivela la pressione interiore da cui nascono.
Non riesco a relazionarmi con i miei fantasmi visivi se non sono stimolato da un argomento che mi coinvolge fortemente. La mia creatività si attiva con la rabbia, con il dolore, con la disperazione ma anche con una tensione insopprimibile verso un futuro diverso. Che poi sarebbe il famoso discorso del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà.
Io ho una formazione documentaristica che non ho mai nascosto e di cui ho sempre fatto un mio segno stilistico. Non so esattamente in che misura questo mio rapporto con il reale sia contaminato dalla formazione come regista documentarista ma di sicuro la percentuale è molto ampia.
Io penso sempre in funzione di luoghi reali, di persone reali, di situazioni reali. E questo ha molto a che fare con il modo in cui i miei maestri nel campo documentario hanno sempre integrato momenti di assoluta realtà con scene di una carica onirica enorme.
Come dire: il reale ha già in sé una dimensione immaginifica, per fare arte bisogna essere capaci di vederla e di renderla visibile. Del resto l’immaginario stesso riguarda a sua volta la storia della mentalità della società che lo esprime. La nostra epoca è l’epoca in cui la storia è diventata storia totale, prendendo in considerazione non solo gli elementi materiali ma anche quelli mentali che contribuiscono in modo inscindibile a formulare la percezione del reale.
Il reale infatti non è sostanziato solo da ciò che è strettamente materiale ma anche dalle idee che determinano gli orientamenti politici e sociali di un determinato periodo o di uno specifico contesto. Ed è per questo che nelle mie opere mi misuro non solo col presente ma anche col passato e col futuro costruendo un immaginario distopico che è sempre strettamente connesso col qui e ora, con la mia dimensione reale.
La prima volta in cui vidi Le stagioni del regista Artavazd Pelešjan rimasi molto colpito dal bellissimo incipit in cui si vede un pastore immerso nell’acqua impetuosa di un torrente abbracciato a un animale mentre viene trascinato a valle, con Vivaldi in sottofondo. È una sequenza estremamente reale perché Pelešjan non fa che riprendere un evento che accade nella realtà fisica e concreta. Ma è anche un momento onirico all’interno di uno straordinario documentario di antropologia che ha fatto la storia del suo genere.
Non è solo Vivaldi che fa trascendere la realtà a una dimensione poetica, è proprio lo sguardo del regista, il modo in cui osserva le cose e restituisce loro dignità, attraverso quella che si potrebbe chiamare una verginità dell’occhio.
Proprio questi frammenti di poesia così incarnati nel reale mi hanno spinto dal cinema documentario verso la videoarte imponendomi una particolare attenzione alla realtà perché un artista è sempre un testimone privilegiato dei suoi tempi e della sua società.
È possibile dire lo stesso anche con le serie fotografiche che produci? O in quel caso il medium utilizzato muove diversi presupposti?
Nella produzione di opere a stampa seguo parallelamente due percorsi che mi stanno a cuore. Il primo è quello più classico che porta alla realizzazione di opere attraverso le foto scattate sui set delle opere video.
In questo caso dal 2018 in poi abbiamo deciso di sostituire la macchina da ripresa con la macchina fotografica per sfruttare al meglio tutte le caratteristiche del mezzo e per non lasciare alla fortuna la scelta di uno scatto tratto da una sequenza basata sulla velocità di 25 immagini al secondo.
Dal mio punto di vista è un rapporto sano con il mezzo e implica una separazione dei punti di vista (ripresa video e scatto fotografico) che possono anche essere diversi.
L’altro percorso invece è legato a un progetto di riflessione sul panorama. Siamo immersi in spazi che più o meno lentamente mutano nel tempo e sono reinterpretati dalle moderne tecnologie o contaminati dai suoni che li attraversano.
La sperimentazione con la fotogrammetria, la tecnica che ho scelto, insieme ad alcuni software generativi mi permette di interpretare una delle tante realtà in cui viviamo con rappresentazioni vettoriali degli spazi. Facendo interagire immagine e suono riesco a generare una dimensione immaginaria che poi fisso sulla carta.
Le immagini che creo spaziano da ampi paesaggi urbani a nature morte digitali passando attraverso la realizzazione di ritratti reinterpretati con i sistemi informativi geografici (GIS). Ritengo che un artista abbia uno strumento principe che usa per lavorare, che per me è il video, ma la necessità di raccontare e comprende ciò che ha intorno lo spingono costantemente a sperimentare nuove tecniche e nuovi spazi di narrazione.
Lo storico dell’immagine in movimento Bruno Di Marino (che peraltro aprirà Ibrida Festival 2022 con un dialogo con la videoartista Francesca Fini a proposito della videoarte al femminile) inizia un saggio dedicato al tuo lavoro con una frase sinteticamente chiarissima: «I brevi film di Marcantonio Lunardi sono installazioni, performance e narrazioni al tempo stesso». Sei d’accordo con questa lettura? Se sì: tale ibridazione è da te progettata o scaturisce di volta in volta dall’incontro con i materiali che affronti?
Sono del tutto d’accordo con quanto scritto da Di Marino che è riuscito a interpretare con una notevole sintesi una parte significativa del mio lavoro. Le categorie e le classificazioni sono utili a noi stessi perché ci permettono di sentirci sicuri nel nostro rapporto con la realtà materiale. Non a caso un semiologo come Umberto Eco ha scritto un saggio sul fascino della lista che tratta dell’uso della lista come modalità espressiva nella letteratura e nell’arte.
Ma il lavoro dell’artista è anche in buona sostanza un’opera di decostruzione, ovvero l’azione di rendere precario quello che è ritenuto solido. Quando mi sono affacciato alla videoarte nel 2011 molti festival non avevano ancora aperto ad opere che avessero un taglio narrativo, seppur caratterizzate da una forte impronta onirica come nel mio stile.
Ho considerato una vera e propria vittoria la decisione del Festival Internazionale di Videoarte di Buenos Aires di aprire per me e altri due colleghi una sezione fuori concorso riservata a opere più marcamene narrative e nonostante questo ritenute di grande impatto poetico.
L’ibridazione delle arti è alla base della mia ricerca e della mia modalità espressiva. Non ci devono essere limiti né nella forma di espressione né nella classificazione dei generi. Queste contaminazioni sono sempre più evidenti e si stanno diffondendo con risultati altissimi come nella produzione di Lech Majewski e di molti altri registi di cinema.
Tra le creazioni che presenterai a Ibrida Festival c’è The Choir, del 2013, che mi ha particolarmente colpito. Com’è nato quel progetto e quali scoperte ti ha portato?
The Choir è stato un progetto particolarmente sofferto. L’idea è nata da un’affermazione dello storico medievale e amico personale Franco Cardini che nel suo discorso di commiato per il pensionamento affermò che in Italia la cultura era totalmente relegata all’interno della televisione e forse gli intellettuali avevano sbagliato mezzo.
Ascoltare queste parole mi ha ricordato la riflessione di Pier Paolo Pasolini su televisione e omologazione. In una famosa intervista Pasolini ha affermato: “Le parole del video cadono sempre dall’alto” riferendosi ai processi antidemocratici che il mezzo televisivo poteva generare. Del resto anche il sociologo Danilo Dolci ha affermato che c’è una differenza sostanziale tra il trasmettere e il comunicare perché “è sempre più facile a uno, trasmettere verso miriadi di singoli, mentre per comunicare non basta l’iniziativa del singolo: occorre l’attivo corrispondere di altri”.
Ecco queste riflessioni mi hanno spinto a cercare un modo simbolico per raccontare il cortocircuito legato alla trasmissione – e alla comunicazione – della cultura nel mezzo televisivo. Oggi un contenuto, per essere riconosciuto come vero, deve passare attraverso la televisione anche attraverso la mediazione di nuovi strumenti come i social che non sono ancora del tutto gerarchizzati.
Per rappresentare il disagio che provo ho pensato ad un video che fosse diviso narrativamente in due parti. La prima parte è simile a un documentario sulla chiesa antica in cui ho girato il video stesso e la seconda parte è più marcatamente videoartistica. Alla fine ho fatto collidere due approcci completamente diversi: il documentario d’arte, con tutti i suoi crismi formali, e la televisione con la sua prerogativa di essere uno strumento commerciale. Non è una polemica contro la natura commerciale della televisione, è semplicemente la constatazione di un dato di fatto.
Proprio ragionando sul come rappresentare questa condizione dei mezzi di comunicazione mi è venuta in mente l’idea di interrompere un brano polifonico, riferito alla morte del Cristo, con passaggi pubblicitari che intervengono di volta in volta su ogni singola voce dei quattro cantori che compongono il coro.
Il coro, nella mia rappresentazione visiva, è formato da persone che sorreggono le immagini dei propri volti trasmessi all’interno di un monitor televisivo: questo è necessario perché i cantori, quali intermediari di cultura, possano essere ritenuti veri e quindi possano essere presi in considerazione. La televisione, e le sue declinazioni attraverso i nuovi media, sono come delle moderne colonne d’Ercole oltre le quali non esiste più alcun territorio conosciuto: non plus ultra.
Gli spot pubblicitari sono il pedaggio da pagare per esistere all’interno delle case dei cittadini ridotti al ruolo di semplici destinatari di un contenuto, ovvero telespettatori.
La propria esistenza, le proprie emozioni, la propria gioia e la propria paura sono interrotte da brevi video di 30 secondi che ti consigliano come epilarti o ti propongono modelli di famiglia inesistenti. La fantasia diventa realtà perché è anch’essa mediata dal mezzo televisivo e compete con la stessa realtà dei corpi fisici.
Non penso sia cambiato molto da allora. Si sono aggiunti altri elementi di disturbo, come i banner pubblicitari o le finestre pop up, che si presentano in una veste diversa ma sono sempre distraenti e ricordano costantemente che anche la cultura, come qualsiasi altro bene di consumo, non può evadere le loro regole.
Tue opere sono state esposte in prestigiose istituzioni a Tokyo, Jakarta, Hong Kong, Gerusalemme, sei stato ospite di Festival a Bilbao, Shanghai, Il Cairo, New York e in varie Biennali d’arte contemporanea anche in Cile, Argentina, Cina e Messico. Cosa ti rende riconoscibile a livello internazionale, secondo te?
Ogni artista mette nelle sue opere una firma narrativa o visiva che lo caratterizza. Riconosciamo subito i video di Bill Viola o Antoni Muntadas dalla loro fotografia, dall’uso delle luci, dall’andamento narrativo. Ognuno è caratterizzato da una serie di modalità compositive, e strutturali che lo rendono riconoscibile tra molti.
Non è diverso da quello che accade agli illustratori: sono molti i disegnatori capaci ma la compiutezza sta proprio nella differenza tra l’avere genericamente un bel tratto e lo sviluppare un segno proprio, unico e riconoscibile.
Non so cosa vedono i curatori internazionali nelle mie opere ma so che le mie narrazioni si basano sempre su una grande cura della fotografia grazie alla collaborazione con Ilaria Sabbatini (DOP delle mie opere). La nostra fotografia non si limita mai allo studio tecnico ma è sempre preceduta da una ricerca sull’immaginario visivo del periodo o del contesto a cui mi ispiro. Poi dedico molta attenzione alla colonna sonora che deriva da un connubio artistico con la compositrice e musicista greca Tania Giannouli, con cui ho un’ottima consonanza artistica. E infine collaboro quasi sempre con attori non professionisti per ragioni che sono facilmente intuibili se si pensa al discorso che facevamo poco fa sulla ricerca del vero.
Le mie opere sono sempre realizzate come tableaux vivants e credo che questa sia una delle mia caratteristiche più tipiche. Una volta composta la scena chiave mi sposto all’interno del set senza dover muovere più niente. Diventa tutto congelato, immobile, perché non sono gli attori che devono muoversi ma solo la videocamera, ovvero il mio punto di vista che esplora. Di conseguenza, nel mio lavoro, ogni movimento minimo dei personaggi ha una grande importanza simbolica e un significato specifico.
È possibile individuare, dal tuo osservatorio privilegiato, o comunque peculiare, alcune caratteristiche specifiche della videoarte italiana contemporanea, rispetto a quanto prodotto altrove?
Secondo me non ci sono grandi differenze tra i vari contesti se non nei mezzi di produzione a cui si ha accesso. Almeno per quanto riguarda il potenziale artistico e la capacità espressiva dei vari artisti. Gli italiani sono bravi, molto più di quando sia diffusa la loro fama all’estero e molto più di quello che si pensa nel nostro stesso paese.
I videoartisti italiani però, che pure costituiscono una realtà di settore molto viva, sono meno conosciuti e riconosciuti per un motivo specifico. In molti paesi la videoarte ha dei sostegni produttivi e promozionali concreti che da noi non sono presenti.
Se dovessi dire cosa mi affascina nella produzione straniera parlerei della videoarte cinese dai suoi primi albori, alle fine degli anni ottanta, fino ad oggi. In genere i videoartisti cinesi riescono a raccontare le contraddizioni politiche e sociali del loro tempo con grande sintesi e capacità narrativa.
Noi videoartisti italiani in realtà lavoriamo costantemente anche in ambito internazionale confrontandoci con altre persone che come noi operano singolarmente. In campo videoartistico non possiamo parlare di “scuole”.
Siamo spesso degli sperimentatori individuali e ci contaminiamo a vicenda mantenendo la nostra firma autoriale che può trovare un corrispettivo con le avanguardie italiane degli anni novanta o in percorsi assolutamente personali che rispondono a tecniche trasversali fra i singoli paesi.
Tornando a casa: vivi e lavori nel villaggio di montagna di Bagni di Lucca, a venticinque chilometri da Lucca. Quanto l’ambiente naturale, urbano, artistico e più in generale sociale influenza il tuo lavoro attuale, dal punto di vista di temi e stilemi?
Lavorare ai confini dell’impero – come mi piace pensare il rapporto tra micro e macro – facilita l’osservazione dei fenomeni. Per esempio la crisi economica del 2008 in provincia è arrivata con una lentezza esasperante ma in maniera inesorabile. Questa lentezza è proprio ciò che permettere di osservare i fenomeni nel loro svolgersi, dettaglio per dettaglio e a volte essere umano per essere umano.
Il meccanismo di speculazione e poi il successivo crollo economico da noi si è potuto osservare in tutte le sue sfaccettature, politiche, sociali, relazionali, come se fossimo in una ripresa al rallentatore. Le industrie che licenziavano, i negozi che chiudevano e la svendita delle case sono stati tutti fenomeni arrivati lentamente.
Il cervello non può lavorare su tanti argomenti contemporaneamente e non funziona in multitasking. Ho sempre bisogno di approfondire singolarmente i temi che voglio trattenere. Ho bisogno paradossalmente di calma soprattutto se sto riprendendo il caos, ho bisogno di allontanare la frenesia che spesso ho vissuto nelle grandi città.
Quando elaboro l’idea di un’opera, quando la realizzo e quando lavoro alla sua finitura sono al tempo stesso al centro degli eventi ma anche totalmente estraneo, come se tutto il mio essere si concentrasse in un punto infinitamente denso della mia videocamera. È un’esperienza di alienazione temporanea, che per me è il solo modo possibile per lasciare tutto lo spazio alle suggestioni trasmesse dal mondo che mi circonda.
Certo, cambiano le opportunità di collaborazione ma la rete (internet e sociale) permette di far vedere il proprio lavoro ovunque susciti una risonanza, senza limiti legati ai confini nazionali. I festival italiani solidi come Ibrida Festival sono ormai pochi, a causa delle crisi che si sono succedute negli anni, ed è normale rivolgersi a istituzioni internazionali per raggiungere un pubblico vasto.
Sicuramente sono quello che sono proprio perché sono cresciuto nel mio piccolo villaggio ma al tempo stesso ho avuto l’opportunità di incontrare moltissime persone in tutto il mondo che hanno stimolato la mia curiosità e accresciuto il mio senso critico. Ognuno di noi ha una tana a cui far riferimento e in cui rifugiarsi sia essa fisica che virtuale. In qualsiasi circostanza, a qualsiasi latitudine ci si trovi a produrre arte si finirà sempre per ricreare una propria tana.
Per concludere: c’è un progetto utopico o particolarmente complesso che hai in mente e che hai voglia di accennare?
Ho l’abitudine di costruire le mie opere sulla base delle mie possibilità economiche e sulle mie conoscenze tecnologiche. Proprio in questo periodo sto presentando un progetto audio legato al suono degli alberi. Ho passato l’estate a studiare il rumore che caratterizza ciascuna pianta, in circostanze atmosferiche diverse. È un linguaggio anche quello – anzi: soprattutto quello – e la mia ambizione è riuscire a tradurlo in un linguaggio artistico che sia comprensibile agli umani. Non la semplice suggestione di suoni campionati ma l’imprevedibilità della singolarità resa fruibile a una ricezione umana, sia essa visiva o uditiva.
Sto sperimentando anche altre forme narrative lasciandomi suggestionare da una riflessione sull’ambiente e sui panorami che in realtà ho iniziato da tempo. Solo che questa volta sto pensando inversamente il rapporto tra uomo e natura. Non solo l’ambiente che si rende comprensibile al linguaggio umano ma la fisionomia umana che si trasforma in panorama ambientale, addirittura geografico, facendo cortocircuitare il concetto di memoria individuale delle origini con l’idea delle origini rappresentate nell’aspetto stesso della terra.
Non nascondo la tentazione di realizzare un’opera in marmo attraverso l’elaborazione di file 3D ma visti i costi questo rischia di essere il progetto più utopico di tutti.
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Grazie. Ci vediamo a Ibrida!