Da ventisette anni Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini sondano Anghiari e dintorni in cerca di nuove storie, battono a tappeto questa zona dell’Aretino a caccia di ricordi, aneddoti, memorie da riportare nella successiva edizione della ormai cult Tovaglia a Quadri. Per dieci giorni (sempre dal 10 al 19 agosto) ci si può immergere nelle vicende del paese della celebre Battaglia pennellata, e non ritrovata, da Leonardo da Vinci, si può entrare dentro un vissuto stratificato, dentro un dialetto misconosciuto, all’interno di dinamiche rurali che non hanno perso forza né tanto meno sono state dimenticate ma si sono sedimentate nella popolazione. Qui anche le storie più antiche si fanno vive in un continuo doppio binario tra il contemporaneo e il passato, il Passato che ritorna nei gesti, nelle credenze, nei modi di dire, quel Passato che identifica nel tempo una comunità, un territorio, un legame forte e speciale tra le persone che abitano un certo luogo tanto da divenire sinonimi. E dove ci sono storie, povere, di sofferenza e dolore, traumatiche e segnanti, ci deve essere qualcuno disposto a scriverle. E una volta scritte e riportate in forma orale ci vuole un popolo pronto ad ascoltarle e ad accoglierle per non farle morire e sbiadire nel tempo che tutto logora ma perpetrare il racconto, farsi partecipi di un sentire.
È un dato di fatto che iniziative come il Teatro Povero di Monticchiello e Tovaglia a Quadri di Anghiari, entrambe esperienze nate dalla volontà popolare e dal basso, abbiano fatto emergere e crescere una coscienza popolare intensa e una consapevolezza del passato da dove queste popolazioni autoctone provengono (con tutte le tribolazioni della campagna) per capire meglio come strutturarsi per affrontare insieme le difficoltà del futuro. Che uniti si è più solidi. Che un paese può diventare anche una Famiglia. Tu chiamale, se vuoi, complicità e ascolto e solidarietà. Che cose meravigliose può fare il Teatro. E un paese in questo ha una marcia in più nei confronti di una città, di una metropoli (che molti agognano per prospettive e possibilità). Certo in città ci sono più opportunità e tutto è funzionale ma il paese è una mamma accogliente che ti abbraccia e non lascia indietro nessuno. Tutto questo per dire che a Merendelli (anche in veste di regista) e Pennacchini dovrebbero fare un monumento perché Tovaglia a Quadri ha tirato fuori un’identità, ha rispolverato un dialetto sconosciuto o bistrattato, ha riportato un indotto, ha creato un turismo culturale nella zona, ha rivitalizzato un’area indebolita prima dalla mezzadria (faccenda prettamente toscana) e successivamente anche da vicende industriali non a lieto fine come la Lebole, la Ingram o la Buitoni. Come il vicino Kilowatt di Sansepolcro (quest’anno con una sezione anche a Cortona), Tovaglia ha portato un turismo più popolare (oltre ai locali) in un territorio prima conosciuto soprattutto per Piero della Francesca e la celebre Battaglia alla quale prese parte anche il grande Leonardo.
Quest’anno, in verità anche lo scorso anno ancora sotto la scure del Covid-19, Tovaglia si è spostata dallo scenografico rione del Poggiolino, nel paese, dal quale si vedeva tutta la vallata, al Castello di Sorci, a pochi chilometri di distanza. L’atmosfera era più elegante rispetto al paese, più da matrimonio in campagna rispetto alla sagra paesana. Ma i piatti sono rimasti gli stessi, senza variazioni, che le tradizioni è bene portarle avanti. Pietanze che sono delle certezze da queste parti: i crostini, i bringoli al sugo finto, lo stracotto di chianina al Chianti, il torcolo e i cantucci. Qui la cucina è sacra e sui piatti casalinghi non si scherza. Il contemporaneo entra prepotentemente nelle narrazioni della Tovaglia ma l’atmosfera e il gusto rimane retrò, con quel pizzico di retorica che non stona, i buoni valori di una volta, la refrattarietà nei confronti del nuovo e delle tecnologie, la fatica del vivere fino alla morale finale, compresa di speranza per un domani migliore, intrisa di quel sano pragmatismo di campagna (fatto di schiettezza e acume e finezza) che lascia aperte le porte all’analisi e alla riflessione, contrario alla stagnazione delle idee. Anzi, nei testi di Merendelli & Pennacchini, è proprio lo scambio fruttifero di posizioni e il confronto tra opposte fazioni che crea quella disarmonia iniziale per poi sciogliere i nodi nell’incedere della drammaturgia.
Il plot presenta i personaggi per poi metterli di fronte a qualcosa che è accaduto, un qualcosa che arriva a piedi uniti a scompaginare la tranquillità delle campagne (lontano dal bucolico perché la campagna non è poesia ma è fatica e sudore e spesso lavoro mal pagato): in questo caso è l’ideazione del Liceo Contadino (titolo di quest’anno), ossimoro lessicale abbinando lo studio al lavoro manuale, solitamente due cose agli antipodi. Sui tavoli (130 persone a sera, 45 euro il biglietto) l’immancabile tovaglia a quadri d’ordinanza della Famiglia Busatti. Il ricco Conte (l’unico attore professionista, Michele Guidi, che ben si è calato nella parte) discendente dei suoi avi che non furono tanto teneri con le maestranze e con i mezzadri loro sottoposti, è illuminato e aperto e ha voluto istituire, anche per raccogliere i fondi dei bandi europei del PNRR (pioggia di soldi che in Italia nella realtà finirà anche nelle mani sbagliate), questa scuola particolare per adesso senza iscritti tra la diffidenza e la derisione dei contadini. Ecco Formichina (Stefania Bolletti), una signora stramba che vagheggia, con più di una ragione però, sulla terra che si ribella e sul clima impazzito per mano dell’uomo, personaggio che è un mix tra Cassandra non creduta e Greta. C’è la bidella che urla i suoi improperi dalla finestra (Maris Zanchi), l’operaio in tuta blu innamorato del suo trattore. Ma poi ci sono le rime e le canzoni e le tante risate in un flusso sempre scorrevole, ben congegnato, nel filone della tradizione ma sempre diverso di anno in anno, un testo infarcito di Storia documentata e piccole storie che si incastrano e si tessono le une sulle altre in un gioco di rimandi alto e ambizioso come popolare e ironico.
Una parte di teatro sull’aia e una portata (fino a mezzanotte) nel fresco della sera nell’aretino. Tutte le vicende arrivano direttamente dalla realtà, dalle carte, dalle interviste, è per questo che il messaggio di Tovaglia ha ancora più validità e profondità perché attinge alle radici della terra. Ed eccoci ai personaggi clou: il prete Don Fabrizio detto anche Don Contro (l’evergreen e colonna portante Fabrizio Mariotti), un prete scomunicato per le bestemmie ma anche per la sua propensione politica comunista, l’ispettore (Pierluigi Domini, ago della bilancia) che viene per controllare i parametri per poter fornire o meno il lauto finanziamento ministeriale, lo spassoso maggiordomo (l’iconico Sergio Fiorini). Emergono, in tutta la loro forza, le umiliazioni e lo sfruttamento dei contadini (Chi non bestemmia mentre lavora vuol dire che non ha mai lavorato), i padroni e le masse che votavano a sinistra, il dolore e la vergogna di essere tra gli ultimi fino ad arrivare al lavoro prettamente femminile alla Lebole (dove non era comunque tutto rosa e fiori come ci hanno voluto far credere, non è stato soltanto laboratorio dell’emancipazione femminile ma anche il perpetrare del maschilismo, del caporalato e del patriarcato) fino ad arrivare ai giovani che non cercano lavoro perché si accontentano del reddito di cittadinanza.
Infine due figure davvero up che portano guizzo e fantasia sulla scena, sprint ed entusiasmo: l’influencer “milanese” (Federica Botta; come tipologia di recitazione somiglia a Chiara Francini) e la piccola figlia (Miranda Neri), bambina che ha mostrato realmente di essere una spanna sopra la media, con il loro bagaglio di storie su Instagram, di app, algoritmi e inglesismi. Il problema di fondo è la cosiddetta transizione ecologica e un ritorno alla campagna che può essere salvifico per le nostre vite inacidite dall’asfalto, dallo stress e dal caos, che può salvare anche la terra stessa dal suo declino al quale l’abbiamo costretta. La parola d’ordine e fil rouge di fondo sembra essere il rispetto, per se stessi, per gli altri nostri simili, per gli animali, per la Natura perché vivere in armonia fa bene a tutti e darsi una mano, in una struttura paritaria e orizzontale invece che verticistica, porta frutti duraturi e durevoli nel tempo, attiva quelle radici che trattengono l’acqua e tengono il terreno, che non fanno scivolare la collina, che danno ossigeno e rigenerano aria e campi. Il Liceo Contadino si farà perché la coscienza può cambiare se alle parole vuote seguono programmi da realizzare tutti insieme con un unico desiderio finale: cercare di stare bene tutti, dal primo all’ultimo, abbattendo le distanze, le differenze, gli scalini sociali. Una bella luce cade da queste piccole lampadine e rischiara questa notte nera: la speranza ha ancora dei solidi baluardi ai quali aggrapparsi.