Il cambiamento è in atto da qualche anno, la trasformazione non possiamo dirsi certamente completata ma i passaggi di consegne e la modernizzazione del Teatro Povero, senza snaturarne la tradizione, adesso sono più chiari e limpidi.
Il cambiamento, non parlerei di vera e propria rivoluzione, è palese agli occhi di chi segue, ogni anno, lo spettacolo messo in scena in Piazza della Commenda dagli abitanti del delizioso borgo di Monticchiello (Patrimonio Unesco), piccole correzioni e variazioni sul tema per rendere quello che fu definito autodramma da Strehler una pièce di teatro contemporaneo senza dimenticare le radici, la storia e il luogo dove questa nasce, cresce e si mostra.
I due volti e nomi responsabili di questa spinta modernizzatrice (insieme agli abitanti del posto e del ricambio generazionale che è possibile vedere sul palco) sono Giampiero Giglioni, che si è formato e fatto le ossa per tanti anni come spalla dello scomparso Andrea Cresti assorbendone la lezione ma anche spostandola nel futuro, e Manfredi Rutelli, regista solido e drammaturgo preparato, qui a Monticchiello da sette anni (da due anni affiancato come assistente alla regia da Alessandro Waldergan).
Un duo affiatato che ha portato una ventata di nuovo nei dialoghi non più così cervellotici e complicati, nella facilità di ascolto, nella scorrevolezza, nella freschezza delle scene intervallate da ironia e profondità fino alla commozione.
Si ha la netta sensazione di essere di fronte, rispetto al passato, non ad una filodrammatica di provincia e più vicina ai canoni del teatro contemporaneo odierno.
Rimane il dialetto di queste parti a colorire le scene anche se, linguisticamente la virata è interessante, le giovani generazioni, l’infornata di ventenni e trentenni o i bambini (che hanno sempre più spazio e sono mediamente in parte proprio perché più coinvolti e non utilizzati) parlano italiano con una leggera cadenza o inflessione ma senza scivolare nel vernacolare.
Segno dei tempi, segno che il borgo non è più così abbandonato e isolato e lontano come era un tempo, segno di un avvicinamento che proprio il teatro ha reso possibile e concreto.
Quest’Ultima chiamata è una di quelle rappresentazioni che passano come un respiro, non superficialmente, ma sicuramente con la forza della non pesantezza, con quello spirito e sprint che ci accompagna fino alla fine in equilibrio tra il sorriso e la riflessione, con un occhio al passato e lo sguardo dritto sul domani affrescando un prossimo futuro come una riedizione catartica di cicli, di corsi e ricorsi storici, di momenti e crisi già vissute dall’Uomo moderno.
In qualche modo, a un giusto pessimismo e timore per le recenti escalation di terrore e violenza, mai mette sul piatto della bilancia la paura ma anzi cerca soluzioni (senza utilizzare facili e biechi ottimismi di maniera) andando a pescare in quella cultura contadina (senza cadere nell’insopportabile bucolico) che è riuscita a cavarsela tra zolle e miseria, fame e ristrettezze d’ogni tipo.
Se ne esce con un sorriso non rassicurante né consolatorio ma senza disfattismi, nella pienezza di aver assistito a qualcosa che è necessariamente folcloristico ma che ha anche valenze artistiche e, in qualche caso, attoriali oltre che una felice scrittura chiara, che coglie i punti essenziali senza scadere in manicheismi di maniera o filosofeggianti astrusi lontani da questa cultura schietta, materica, di sostanza.
In una scena tutta bianca, dagli sgabelli al telo sul fondale, al gatto che ogni anno passa indisturbato tagliando il palcoscenico (anche questa è la bellezza di Monticchiello) gli uomini attendono attorno ad un telefono la chiamata dalla sezione del PCI di Roma per sapere come comportarsi di fronte all’entrata dei carri armati sovietici in Ungheria.
L’analogia con la crisi attuale tra Russia e Ucraina (la sfida di Putin all’Europa) è lampante e la scrittura fa da elastico tra un passato recente ma comunque generazionalmente disperso nel Tempo ed un prossimo futuro distopico purtroppo possibile e potenzialmente credibile.
E ci sono gli uomini che si allineano ciecamente e stupidamente e acriticamente accettano le decisioni di altri uomini all’interno delle sezioni di partito e ci sono le donne che invece ragionano con la propria testa e tifano per la pace.
E ci sono i comunisti da una parte e ci sono i democristiani dall’altra nel classico scontro tra Peppone e Don Camillo.
Il telefono è il mezzo per raggiungere il mondo, per conoscere che cosa accade a distanza di chilometri: Ma la guerra arriverà anche da noi? è la domanda che riecheggia anche ai nostri giorni.
Alla questione della guerra si aggiunge quindi anche quella di genere mostrando la forza delle donne che in ogni epoca hanno tenuto insieme la casa, la famiglia, lavorato e sfamato ma che, giustamente, rivendicano anche ruoli sociali, e non soltanto casalinghi, non confinati alle quattro mura domestiche.
E arriva il primo momento di crack: sulle pareti del Duomo da una parte e sulle mura delle abitazioni in piazza arriva una carrellata da pelle d’oca che in una sequenza veloce, che però l’occhio registra, il cervello assorbe e il cuore digerisce, che ci porta dai Beatles a Che Guevara, l’allunaggio e Modugno, l’attentato di Piazza Fontana, Kennedy e Nilde Iotti, i cortei per l’aborto, Gorbaciov, la Palestina e il muro di Berlino, Tienanmen e Capaci, Nelson Mandela, Saddam, il G8 di Genova, la colonna dei mezzi militari che portano via centinaia di bare di morti per Covid, Papa Francesco da solo in Piazza San Pietro, la distruzione di una città ucraina.
La crasi delle crisi dal dopoguerra ad oggi senza la forzata ricerca della lacrima, piuttosto ricerca della consapevolezza.
È uno schiaffo che ci mostra la stupidità umana e come nessuna catastrofe ci abbia mai insegnato niente.
Ci sentiamo responsabili, ci sentiamo colpiti e affondati, ci sentiamo chiamati in causa.
È uno scossone come essere stati presi per le spalle ed essere sbattuti, agitati per farci riprendere coscienza, svegliati da un torpore che non ristora ma acquieta e ci seda.
Tra i vari interpreti, tutti meritevoli, vogliamo segnalare gli storici Paolo Del Ciondolo, Idro Guidotti e Arturo Vignai, colonne portanti, il giovane Marco Vignai molto bravo nel suo monologo, Lorenzo Manzini il bambino sullo schermo, Alessandro Barni con una bella impostazione, Arianna Di Carlo e Giulia Casiroli le new entry che hanno portato un nuovo slancio.
E ancora, altra sorpresa: quando il paese si collega per ascoltare il discorso alla Nazione di un direttore (il riferimento a Draghi o forse anche a Conte è lampante) ci troviamo davanti, sul piano dell’assurdo ma comunque credibile, un bambino, molto convincente e forbito e preciso nelle sue analisi, ma pur sempre un ragazzino che parla, e persuade l’audience, con parole calme e rassicuranti sull’importanza del sapersi contentare, di ridimensionare aspettative e tecnologia, un piccolo Medioevo d’avanguardia è in arrivo prospettando la catastrofe ma imbellettandola con termini contraddittori, dove l’austerità diventa in un attimo frugalità, dove il rinunciare al nostro stile di vita attuale pieno di comodità e comfort diventa eliminare il superfluo e dove i tagli si materializzano come la famosa transizione ecologica.
Con il gas chiuso, il coprifuoco, il mercato nero, l’elettricità mancante, le auto che non circolano più per mancanza di petrolio, i giornali che non ci sono più e neanche internet, né l’acqua calda né tanto meno i cellulari, anche i telefoni fissi vengono staccati.
E, come accade spesso a Monticchiello, il finale è circolare e si riaggancia all’inizio e scalda: viene ritrovata una borsa aperta che una volta aperta si illumina (ricorda la scena conclusiva di Pulp Fiction con la valigetta che emana un fascio di luce) e che contiene quella bandiera della Pace cucita dalle donne del paese che gli uomini non permisero nel ’56 di mostrare, di portare in corteo.
I tempi, fortunatamente, sono cambiati.
Il PCI oggi starebbe dalla parte dell’Ucraina.
E allora, non chiedere mai per chi suoni l’Ultima chiamata. Essa suona per te.