Il problema è che i rumori sono prima, durante e dopo la scena, dentro e fuori in una centrifuga di sentimenti, in un vortice di situazioni rocambolesche impossibili da governare, incontenibili, a valanga.
Rumori fuori scena è una caduta senza paracadute, un salto nel vuoto senza rete, un tuffo in piscina senz’acqua.
Avvertenze: potresti farti male, dalle risate.
Perché tutto quello che potrebbe capitare su di un palco, ma anche all’interno di una vecchia (forse non ce ne sono più così) compagnia di giro, qui accadrà e tutti i fantasmi e le manie e le paure dei teatranti si materializzeranno trasformando il play, il gioco teatrale, in un frizzante incubo da palcoscenico.
Rumori fuori scena (di Michael Frayn, per il 35esimo anno al Teatro Vittoria di Roma a cura di Attori e Tecnici, una tenitura da far impallidire Broadway e il West End londinese) è un grande gioco di società basato su quella doppia spada di Damocle che sono gli Imprevisti e le Probabilità, bilanciato dalla Legge di Murphy (quella che dice che se una cosa può andar male andrà effettivamente male), in un caotico caravanserraglio di sardine e porte, di entrate e uscite, di pieni e vuoti da riempire.
La regia di Attilio Corsini è costruita sul perfetto parallelismo tra la scalcagnata compagnia e la scena (di Bruno Garofalo, eccezionale ricostruzione e ribaltamento) traballante che pare sfaldarsi e crollare da un momento all’altro ma che invece rimane solida, nel suo tentennare e barcollare, senza cadere, replica dopo replica.
È una grande macchina ad orologeria tumultuosa che scardina ogni regola, che mette in subbuglio, spiazza nevrotica, mette a soqquadro, una girandola felicemente nervosa di quadri dove tecnica e precisione (proprio le due caratteristiche che i personaggi-attori dimostrano di non possedere) sono le qualità del cast reale che più emergono in questo congegno millimetrico, in questo spettacolo, sulla scena, improvvisato e amatoriale, dilettantesco e cialtrone.
L’impianto, diviso in tre atti, è una zoomata cinematografica perché ci mostra nel primo capitolo le prove prima della prima, nel secondo tutto quello che accade dietro le quinte di una delle tante repliche stralunate, completamente sbagliate e sconcertanti, nel terzo quello che la platea di quelle recite ha visto, o meglio intravisto nello zibaldone confusionario di un tutti contro tutti tra dentro e fuori il palco.
Ecco i caratteri dei quali non puoi non innamorartene e uscendo citare i loro tormentoni: c’è l’attrice Vivi che non si ricorda la parte (Viviana Toniolo perno e fulcro), c’è la svampita Lisa/Brook (Chiara David, tra i caratteri più briosi nel suo immobilismo) che recita irrigidita e senza intonazione e che freddamente ripete le sue battute meccanicamente, la sua battuta-tormentone è “Come?” perché pare sempre non capire o essere capitata lì per caso, c’è l’indeciso Jerry (Stefano Messina funambolico) che farfuglia per poi concludere le sue frasi nebulose, spiegazzate e ciancicate con un “Chiaro no?” o “Non ti pare?” o il suo marchio di fabbrica “Capito?”, c’è l’imbranato e rallentato Severino (Marco Simeoli eclettico) che si scusa per tutto, Belinda (Chiara Bonome, ottima spalla) sua energica moglie, il regista Raul (Carlo Lizzani effervescente) sull’orlo di una crisi di nervi e tombeur de femmes, c’è l’attore esperto, Amedeo (Roberto Della Casa, grande protagonista anche al cinema) sordo e con il vizio della bottiglia, c’è l’assistente alla regia Lella (Virginia Della Casa buon collante) innamorata anch’essa del regista, c’è il tecnico-macchinista, non poteva che chiamarsi Quinto (Sebastiano Colla energico) proprio perché sta dietro le quinte, pronto per qualsiasi mansione e sostituzione.
Ora mischiate, mantecate, miscelate, frullate tutto.
Sarà un Big Bang esplosivo.
Sarà una rivoluzione scoppiettante.
Ne esce fuori un caleidoscopio, umanissimo e viscerale, tutto di pancia e istintivo, sudato e fremente, dei topos che si possono incontrare all’interno di un gruppo teatrale che ci fanno ancora essere più grati a chi va in scena, sera dopo sera, diventando altro, mettendosi una maschera per regalarci la poesia del momento, la pausa di riflessione, lo squarcio di pensiero sulle nostre vite.
Rumori fuori scena è un incredibile gioco d’incastri, un meraviglioso Tetris dove tutto sembra andare storto e invece è proprio da quel caos che nasce la stella della magia, quella stardust inspiegabile, quell’immateriale lucentezza che ci travolge, che tutto tracima portandoci lontano.
È proprio in questa triangolazione che risiede la forza dirompente, la freschezza di una cascata di montagna, ancora dopo tanti anni, della commedia in tutto il suo British style fatto di velocità d’esecuzione e rapide battute e risposte come una sparatoria da Far West: attori che recitano la parte di attori che mettono in scena, continuamente dentro e fuori dal ruolo, altrettanti personaggi.
È in questo cortocircuito che scatta la molla, che si innesca il congegno di ingranaggi fragili, che si incendia la fiamma che tanto ha fatto amare questa versione di Attori e Tecnici.
Bisogna recitare benissimo per far finta di non saper recitare.