Cominciamo dal fondo.
Da un lieve disagio.
Che è quello, da guardatori seriali, di quando subito si parla, ci si normalizza, dopo uno spettacolo, o meglio dopo un accadimento performativo, se e quando ha fatto il suo lavoro di smottamento.
Il disagio di quando si applaude, alla fine di esperienze che a volte, quando siam fortunati, hanno più a che fare col rito, che con lo spettacolo.
È vero che il teatro origina nel trinomio rito-gioco-festa, ma insomma, ci siam capiti.
Questo piccolo disagio, in realtà, fa piacere provarlo: segno che qualcosa s’è mosso.
Che non vi è stato solo intrattenimento / esibizione di sé / informazione / predica, le quattro caratteristiche ahinoi più comuni di ciò che è dato a vedere oggidì sulla scena nazionale et ultra.
Questo piccolo disagio l’abbiam provato tre volte, all’ultima edizione de Il Giardino delle Esperidi Festival, al termine di altrettante proposizioni in cammino a cui abbiam partecipato: spettacoli, li potremmo chiamare, ma sarebbe forse improprio, certo riduttivo. Ciò di cui vogliam parlare, anche se in maniera non bastante, ha qualcosa in più e qualcosa in meno di uno spettacolo.
Qualcosa in meno, innanzi tutto, perché anche nel linguaggio comune si va a vedere uno spettacolo e qui, in particolare nell’Hansel e Gretel con cui abbiamo attraversato di notte i boschi attorno a Campsirago Residenza, da vedere c’era, letteralmente, poco o nulla.
Qualcosa in più, etimologicamente, era (è) il punctum: teatro (e danza) come occasione, e luogo, di visioni.
E di poesia, nel senso sdoppiato sia della struttura del linguaggio (dei linguaggi) sia dell’attitudine creativa, o meglio creaturale, a cui queste opere han dato corpo, voce, spazio. Aria.
Stiam parlando del già citato Hansel e Gretel di Michele Losi, di Amleto. Una questione personale, da lui diretto insieme ad Anna Fascendini e a Giulietta de Bernardi e a Oltrepassare di e con Silvia Dezulian e Filippo Porro.
In tutte e tre queste proposizioni gli spettatori / partecipanti sono stati invitati ad andar per boschi, insieme agli artisti, e compiere insieme un gesto estetico, dunque letteralmente conoscitivo, a partire dalla silenziosa immersione in uno spazio naturale.
Nel caso di Amleto. Una questione personale la seconda parte del titolo, nomen omen, dichiara l’attitudine relazionale, di costante interpellazione a ciascuno, che caratterizza quest’opera.
Se è vero, si potrebbe legittimamente obiettare, che qualsiasi creazione ha lo scopo di “arrivare” a ogni fruitore, in questo caso ciò si fa funzionalmente evidente anche grazie a tre elementi: le cuffie, attraverso le quali si ricevono, a volte letteralmente bisbigliate al nostro orecchio, suoni avvolgenti e precise parole; il contenuto referenziale di quanto ascoltato, con e senza le cuffie, volto con densa semplicità a porre domande intime e smisurate, lievi e radicali, finanche sapienziali (a mo’ di sineddoche, il folgorante incipit: Chi sei / quando nessuno ti guarda / quando i tuoi cari sono da un’altra parte / e intorno c’è quella specie di vero silenzio / senza fretta. / Qual è il tuo dubbio? / Il conto che qualcuno ha lasciato per te / il pacco non gradito / che ti è stato recapitato tuo malgrado. / La domanda / che nonostante tutto / ti ha raggiunto? / Di cosa dubiti? / Di cosa hai paura?); l’attraversamento a piedi di spazi naturali immersivi, che come sa chiunque l’abbia provato in maniera almeno un po’ accorta e ripetuta è un modo semplice, concreto ed efficace per rientrare in contatto con parti del sé altrimenti sovente dimenticate, distratte se non annichilite dalla routine e dal frastuono quotidiani.
In questo Amleto l’azione scenica è guidata da una decina di partecipanti al Laboratorio di alta formazione di teatro nel paesaggio: i testi originano dal lavoro svolto e sono interpolati, in una sapiente tessitura a cura di Sofia Bolognini, a frammenti dall’Amleto di William Shakespeare.
“Dire qualcosa è sempre fare qualcosa” (ricordi di università, la Teoria degli atti linguistici di J.L. Austin): quanto è vero, per questa decina di dedite Figure che, in grazia di contemplanti e con la rigorosa passione di dediti officianti, guidano le persone in un viaggio, metaforico e al contempo letterale, solitario e condiviso, individuale e corale. In alcuni momenti si è tutti insieme, in altri si è divisi in due linee che seguono diverse traiettorie, per poi ricongiungersi: labile e al contempo solidissima architettura dello stupore, dell’incantamento.
Una parola va spesa per una domanda larga, apertissima, sulla presenza scenica. L’occasione è data dall’aver incontrato il lavoro attorale di uno degli interpreti, Sebastiano Sicurezza, dotato di un magnetismo che, anche nelle scene corali, catturava il nostro sguardo e la nostra piena attenzione.
Al di là del giudizio o dei complimenti (cercano di andare altrove, le nostre poche righe), la questione che il suo fare (stare? essere?) pone ha a che fare con la consistenza performativa e come questa possa far breccia nella ricezione spesso sovraccarica di chi assiste.
Nel balletto romantico, per dire, il meccanismo è chiaro: in molti momenti l’étoile è contornata da ballerini/ballerine di fila la cui composizione nello spazio è volta a valorizzarne la figura.
Ma in scene corali, come molte in questo Amleto, in cui tutti gli interpreti son vestiti uguali ed eseguono la medesima partitura cosa fa sì che un(a) artista sia più calamitante di altri/altre?
Per chi si occupa professionalmente di arti performative, ma anche per gli appassionati e per i curiosi desiderosi di essere consapevoli di come le forme / forze del mondo ci attraggano e, dunque, letteralmente manipolino, crediamo sarebbe utile e opportuno dedicare qualche tempo e pensiero a tali questioni (a chi fosse interessato consigliamo senz’altro la lettura di On Presence, densissimo numero di Culture Teatrali a cura di Enrico Pitozzi pubblicato una decina d’anni fa).
È azione concretamente estetica questo Amleto, in cui la tragedia si fa atto, ad esempio, nel nostro incurante calpestar cadaveri, verso la fine del cammino, o nelle due linee di spettatori che sfilano una di fianco all’altra, ciascun per sé (in immersione nell’ascolto di ciò che vien trasmesso in cuffia, nel paesaggio, nei propri pensieri e sensi): dramma della solitudine, dell’incomunicabilità che si fa millimetrica geometria in cammino.
Altra materializzazione, o meglio coincidenza, fra la fabula e l’atto nell’Hansel e Gretel che, in grazia dell’essere in programma in un Festival libero e visionario, abbiamo potuto incontrare partendo a mezzanotte e attraversando, al buio e in silenzio, un bosco come quello che nella storia, com’è noto, è attraversato dai due piccoli protagonisti.
Rappresentazione che si fa presentazione, dunque – come non pensare ai celebri cavalli in galleria di Kounellis – a regalare a qualche decina di silenti, attenti camminatori l’indimenticabile esperienza di un percorso iniziatico in cui perdersi.
Infine, ma tanto si potrebbe e forse dovrebbe continuare, almeno una parola su un accadimento di parole – ma non certo di significati – privo: Silvia Dezulian e Filippo Porro (a proposito di magnetismo scenico tanto si potrebbe dire, o scrivere, su di loro) armati di zainetti scenografati e amplificati a cui son collegati microfoni che raccolgono e trasmettono il suono dei loro passi, accompagnano gli spettattori in una ascesa (nel bosco, da Mondonico a Campsirago) in cui la coreografia si fa letteralmente scrittura di corpi nello spazio e il patto artistico un comune attraversare con cura un tempo e un luogo.
Oltrepassare, esempio di scrittura performativa effimera e al contempo concretissima, è agito dai due artisti non nel ma insieme al paesaggio: non neutro contenitore, appunto, ma elemento drammaturgicamente attivo in cui sassi, declivi, radure e rami divengono co-creatori.
Un po’ come gli spettatori, a tratti convolti direttamente (copiando passi e gesti dei due artisti o sostenendone, concretamente, l’avanzare), a tratti nella funzione di semplici guardanti (ammesso che l’atto del guardare possa, oggi, definirsi semplice) di azioni che, ancorché oltremodo atletiche e sapienti, non sono mai mera ostentazione di téchne ma -prospettiva ben più lungimirante- occasione di più accorta immersione extra-quotidiana nello spazio (naturale, temporale) attraversato.
Following the Sun si intitolava l’edizione 2022 del Festival: come nel mitologico Giardino abbiamo colto alcuni frutti d’oro.
Di questo -e molto- ringraziamo.
Smontiamo la guardia e domandiamoci su ciò che abbiamo visto questa sera perché, sulla mia vita, credo che questo spirito, muto per molti, a voi parlerà.