Il Cristo di Almada guarda e benedice Lisbona. Almada non si può considerare periferia della capitale portoghese, certo l’atmosfera e il sentore sono gli stessi, ma è rimasta un’aria sospesa tra la sua anima popolare di costruttori di navi e barche e le nuove costruzioni, tagliate dalla moderna tramvia, che la rendono al tempo stesso vissuta, consunta e votata al futuro. Il ponte rosso d’acciaio collega questa terra nuova a quella del fado. Da qua si vedono le sagome della Torre di Belem, nonostante la foschia che opacizza sempre la visuale, le onde che si formano nell’incrocio tra il fiume Tago e le acque gelate dell’Atlantico, lo skyline di questa capitale europea affascinante e carnale, piena, antica e in continua evoluzione, con forti radici nel passato ma lo sguardo multiculturale aperto ed espanso al domani. E il Festival de Almada (che quest’anno ha toccato le 39 edizioni) soddisfa a pieno la voglia di rinascita di questa terra con una grande selezione (a cura del direttore Rodrigo Francisco) tra intensi spettacoli di livello mondiale e piece portoghesi, un mix efficace per un totale di venti spettacoli, dislocati in sei spazi ad Almada e due a Lisbona in quindici giorni di repliche (dal 4 al 18 luglio). Per avere un’idea dell’importanza del festival a livello europeo basta citare alcuni nomi presenti nel cartellone, da Christoph Marthaler (che noi recensimmo a Bologna) a Bob Wilson (del quale scrivemmo dopo la replica a Venezia), ma anche il nostro Ascanio Celestini (abbiamo visto il suo Museo Pasolini al Puccini di Firenze), fino a Thomas Ostermeier e Wim Vanderkeybus o grandi compagnie come i berlinesi della Familie Floz, i francesi Baro d’evel. Gli spettacoli provenivano da un panorama che spaziava, oltre che dal Portogallo, da Francia, Spagna, Italia, Germania, Svizzera, Inghilterra, Cile, Belgio.
Ci hanno colpito cinque spettacoli per scena, impatto, forza espressiva: l’Odipus di Ostermeier, Sonho della compagnia lusitana Teatro do Bairro, Falaise di Baro d’evel da Tolosa, Hands do not touch your precious Me dei belgi Ultima Vez, Se eu fosse Nina del gruppo lisbonese Close2Paradise.
Iniziamo proprio da quest’ultima con un testo (di Rita Calcada Bastos) che ha esaltato le caratteristiche, le doti e i tanti registri interpretativi di Carla Maciel che, vestita da sposa, ha fatto dentro e fuori dal testo cechoviano, Il gabbiano, giocando con le ombre, con i fantasmi, con la possibilità del teatro nel teatro, con questo personaggio che a volte travalicava l’attrice mentre altre veniva messo da parte dalla performer in una sorta di prova aperta teatrale, con il ruolo che dialogava con il presente. Ad una prima occhiata poteva sembrare Winnie di Giorni Felici. Anche qui l’insoddisfazione si taglia a fette in questo spazio ampio e scarno dove le scaffalature ai lati delle tre pareti della scena creano chiaroscuri inquietanti e caricaturali facendocela sembrare ancora più piccola, minuta, in gabbia, in galera, reclusa, prigioniera di se stessa. Un ottimo uso delle luci (di Paulo Santos; e dei giochi di buio) ha evidenziato e sottolineato la natura dubbiosa e passionale, amletica e viscerale di questa Nina umana, sbagliata, sconfitta, senza appigli, senza prove d’appello, giudicata, stanca, svuotata. Come se fosse immersa in un ricordo trasognante tra quello che è accaduto (si sentono degli spari) e quello che avrebbe voluto che fosse successo, si dilania, si incolpa (“Tu Nina sei un mostro” si autoaccusa), non si perdona, mai si giustifica, anzi lei stessa è il suo primo e più crudele delatore. Dialoga ferocemente e furiosamente con gli spettri del suo passato e con i piedi e le mani fasciate ci ricorda un Gesù ormai sceso dalla croce, con quel peso che si è portata per troppo tempo sulle spalle e adesso, forse, ha trovato un po’ di pace, quel che resta della tanto agognata serenità e tranquillità. Attrice e personaggio si possono salvare, solo il teatro le può salvare. Le ulteriori bende sugli occhi invece la avvicinano ad Edipo, altro amato antieroe.
Di grande resa scenica e impatto potente è stato sicuramente Hands do not touch di Vanderkeybus che ha toccato tutti gli aspetti più apotropaici, ancestrali e primordiali dell’uomo con questo suo lavoro carnale e materiale, tattile e atavico e istintuale, arcaico, primitivo e remoto. Le mani del titolo sono le vere protagoniste, insieme al fango originale dal quale è stato creato l’uomo, un materiale che per tutto l’arco della coreografia sposta, si attacca, macchia, ingloba tutti i danzatori in un brutale e crudo fagocitarsi. Un guru (potrebbe essere Dio come Lucifero) gioca con la sua creta con la quale impasta e, attraverso l’invenzione di maschere che si applica sulla faccia, cambia sembianze e si trasforma. E’ un caprone con il vello che riattiva tutta un’iconografia biblica di pelli di animali e riti propiziatori che lo avvicinano agli auguri romani che leggevano il futuro dentro le viscere degli animali o ai “sacerdoti” della cultura azteca che facevano sacrifici umani sulle loro piramidi squadrate. Gli altri danzatori mentre compiono le loro evoluzioni troppo vicino al demiurgo vengono presi (come il morso degli zombie) e trasformati, non più esseri viventi ma manichini, automi alle sue dipendenze, regole e ordini. Il semidio gioca con la sua argilla manipolandola creando bamboline voodoo-Alien che muove a suo piacimento. Il cerimoniale del suo culto animalesco, idolatrico, perfido e demoniaco prevede morsi e amplessi, il possesso delle mummie e il cannibalismo da incubo, il fuoco totemico e il sangue, insozzati di melma sulfurea, l’incrocio di spiriti, maschere, feticci, un mix di magia nera, satanismo e stregoneria. Non può che finire con lo scontro finale tra l’Angelo in bianco e l’Angelo della Morte, ora simile a Joker, a colpi di capoeira, una sfida da ghetto in stile hip hop. Una vigorosa, energica, possente, imbrattante, sporca, lorda opera.
Se il Sogno di Strindberg era a tutti gli effetti un dramma, in questa trasposizione tutta portoghese, è la scena a rubare lo sguardo: come se una parete di una abitazione, con tanto di finestre, fosse stata appoggiata a terra, su un piano inclinato. Subito si ha la netta percezione di come la trovata scenica cambi la portata del messaggio originale; qui i sogni, e i fantasmi e le persone evocate o le apparizioni, entrano ed escono da botole nel pavimento (che sarebbe un muro verticale caduto), in un continuo volo (circense e acrobatica), dentro e fuori, di saliscendi e fughe, di scomparse funamboliche. La scenografia, dunque molto escheriana, ci porta direttamente ad un immaginario da Tempesta shakespeariana, con questo piano in discesa e i continui trambusti che provengono dal basso da questa ipotetica stiva, questo legno marcio che traballa. Il “Sogno” si trasforma in un viaggio alla scoperta di sé. Sotto la scena si nota un gran lavorio con le scale che spuntano e spariscono o rimangono alte come pennoni senza bandiere. Ecco che Novecento di Baricco ci salta agli occhi e questi personaggi diventano improvvisamente gli emigranti cantati da De Gregori nella sua Titanic: “Su questo mare nero come il petrolio ad ammirare questa luna metallo e quando suonano le sirene ci sembra quasi che canti il gallo. Ci sembra quasi che il ghiaccio che abbiamo nel cuore piano piano si vada a squagliare in mezzo al fumo di questo vapore di questa vacanza in alto mare”. E’ una zattera in mezzo al mare questa psiche che concretizza i suoi sogni in carne ed ossa e dalle buche e dalle finestre escono ed entrano come topi dalle fogne, come insetti kafkiani. Dall’alto sembra un gigantesco Pac Mac con questa dozzina di personaggi che corrono, saltano giù, riemergono. C’è il ponte e il deposito, un mondo di sopra e un mondo di sotto che qui si miscelano, i pieni e i vuoti che si incastrano in questa Moby Dick dove ognuno persegue la propria disperata ricerca della personale balena bianca.
Altro spettacolo eccentrico da ricordare non può che essere Falaise dei francesi Baro d’evel un immenso impianto con otto attori, una costruzione con quattro grandi torri (di Babele?), dieci colombi ammaestrati e un cavallo. Uno spettacolo folle, da vera meraviglia, da rimanere a bocca aperta per le continue invenzioni sceniche, i passaggi, i momenti eclatanti e quelli eccezionali. In questa dimensione lugubre e luttuosa, che vira in sfumature dal grigio al nero, dal cenerino all’ardesia fino all’antracite, evidentemente un sottobosco dell’umanità, un limbo purgatoriale, solo tre elementi sono candidi e puri e bianchi: i colombi (la libertà), il cavallo (lo spirito selvaggio) e la sposa, forse cadavere, (la purezza virginea). Dalle mura di pseudomarmo di questo castello, di questa fortezza che pareva inespugnabile si aprono delle falle, delle crepe, dei buchi (ci sono anche ascensori e porte scorrevoli) dai quali escono, vengono sputati e vomitati, partoriti e buttati in questa miniera altri personaggi scuri e impolverati (sembrano i poveri protagonisti de “I mangiatori di patate” di Van Gogh), come un rompere il guscio e trovarsi in questo mondo parallelo dai suoni post industriali per niente accomodanti né pacifici né consolatori. Ed ecco la scena miracolosa: un uomo e una donna (come ne Gli amanti in blu di Chagall) che si abbracciano, forse si ritrovano dopo tanto tempo o dopo un’eternità, e che stringendosi e stritolandosi con le braccia cominciano a rompersi, iniziano a scalfire la loro immobilità e fissità e si spaccano in mille calcinacci e gesso e cadono pezzi d’intonaco e rimasugli di piatti e porcellana e ceramica che fanno il rumore di vetri frantumati e distruggono il tempo che li ha bloccati e con il calore dell’amore riescono a demolire la patina di vecchio che gli si era incrostata addosso rendendoli statue e monumenti. Adesso si trovano nuovamente, come insetti che hanno fatto la muta, come farfalle emerse dal bozzolo, non più prigionieri, adesso finalmente liberi camminano sulle macerie di quello che erano. E’ un mondo che cade a pezzi e va letteralmente in frantumi, un mondo di zombie (con le loro ritmiche acrobazie da stuntman), di bassifondi cimiteriali dell’anima. La speranza non abita più qua.
Poca speranza anche in questa potente versione contemporanea dell’Edipo che Ostermeier declina in Odipus (prod. Schaubuhne) immettendo i personaggi del Mito in una casa moderna, anzi in una cucina d’oggi. La struttura che contiene idealmente il tutto è un telaio scarnificato di neon a creare una casa di quelle da fiaba disegnate dai bambini con gialli tubolari illuminati a sorreggere il peso della tragedia. Un cameraman si aggira sul palco rimandando, a metà tra presa diretta e pre-registrato, sullo schermo le immagini raccolte, mentre segue i nostri Edipo, adottato da piccolo perché frutto di uno stupro, con la moglie-madre incinta Giocasta, e il ricordo del padre Laio ucciso accidentalmente in un incidente d’auto. Sullo sfondo aleggia quella che per Sofocle era la peste abbattutasi su Tebe che qui viene traslata in un disastro ambientale causato dalle industrie appartenenti alla famiglia di Edipo. Il mondo contemporaneo entra a piedi uniti nel Mito e lo corregge e lo cambia e lo sposta attraverso ambientalismo ed ecologia, i temi cardini delle generazioni dal dopoguerra ad oggi. Se in Sofocle poi la madre si suicida, in Ostermeier viene aggredita da Edipo che tenta di ucciderla per poi suicidarsi a sua volta. La vita che è nel suo grembo però continuerà a vivere.