Una nuova occasione per riconoscere e ripensare scoperte e ricerche del passato (prossimo et ultra) sulle forme e le forze del linguaggio performativo e del segno coreutico è stata offerta dalla sesta edizione di FisiKo! Festival internazionale di azioni cattive che si è svolto a Santo Stefano di Magra, nei pressi di Sarzana in provincia di La Spezia e a cui abbiamo partecipato dal 22 al 24 luglio 2022.
Le proposizioni da noi incontrate, tutte in programma in diversi spazi dell’ex stabilimento ceramico Vaccari, hanno presentato costituitivi, reiterati riferimenti a un passato più o meno remoto.
E non c’è nulla di male, ça va sans dire.
«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma»: il celeberrimo postulato di Antoine-Laurent de Lavoisier vale a ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che quello dell’originalità è un falso problema.
È uno dei tanti vizi della cultura occidentale -moderna e post- il ritenere, più o meno consapevolmente, che ciò che è nuovo sia per forza migliore di ciò che non lo è o, allargando lo sguardo, che qualcosa che viene dopo sia senz’altro più evoluto di altro che lo ha preceduto.
Sgombrato il campo da questo ahinoi comune pre-giudizio, ci accingiamo a restituire qualche breve pensiero non tanto nel merito delle creazioni in cui ci siamo imbattuti, piuttosto sul segno che esse portano in relazione a una possibile idea di tradizione.
Il progetto artisticamente diretto da Maurizio Camilli ha proposto un discorso (termine da intendersi foucaultianamente come «luogo dell’articolazione produttiva di potere e sapere») assumendosi la responsabilità di instaurare ciò che Jacques Rancière definisce «regime del sensibile»: un modo di organizzazione delle evidenze che determina il rapporto fra ciò che, in una data epoca o in un determinato contesto (in questo caso: la comunità riunita all’ex Vaccari di danzatori, teatranti e affini ma anche -nota di gran merito- di molto “pubblico vero”) è sensibile e ciò che non è sensibile, fra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile e -di conseguenza- fra ciò che è enunciabile e ciò che non lo è.
Per chiarezza (e per esempio): si è visto lo spettacolo Étoile, e dunque se ne è potuto parlare, perché la Direzione Artistica ha deciso di invitarlo. Se così non fosse stato, gli artisti non avrebbero potuto dir la loro e noi non avremmo avuto modo di dir la nostra sul loro dire.
Fin qui, nulla di nuovo: questo è ciò che fa, con tutta evidenza, qualsiasi curatore o direttore artistico, illuminato o meno, di qualunque Festival o rassegna, grande o piccola che sia.
Quel che pare doveroso sottolineare, in questa precisa occasione, è l’intenzione (nell’accezione ancora una volta etimologica di in-tensione, di spinta che dall’interno del soggetto muove verso l’altro da sé), che nel caso di FisiKo! si fa progettualità.
E si fa luogo, direbbe Michel de Certeau.
Non ci addentreremo nell’analisi (né tantomeno nel giudizio) di e su ciò che è stato dato a vedere, limitandoci a una constatazione: è emerso un netto ritorno alle forme e ai modi della tradizione – fatto di per sé neutro, come si diceva in apertura.
Si tratta, forse di un fisiologico, appunto, “prendere la rincorsa” nell’andamento naturalmente altalenante della Storia delle Arti: basti pensare, un esempio fra mille dal mondo delle arti visive, al corposo ritorno alla pittura dopo Marcel Duchamp e i suoi orinatoi e prima delle tele tagliate da Lucio Fontana.
Ci sembra, infatti, che dalle giornate di FisiKo! siano emerse in misura maggioritaria un’idea e una prassi di arte coreutica come specchio della realtà (teso al riconoscimento e alla rappresentazione del reale, alla riconferma dell’identità personale e collettiva) e l’adozione di canoni e stilemi consolidati nella/della tradizione/convenzione (arte come espressione del sé e come manifestazione di una téchne che distingue l’artista da chi artista non è).
Ancora: frequenti ancorché proteiformi riferimenti al reale, secondo un’idea di Arte e di Bello come “imitazione della Natura” (o comunque realtà come riferimento imprescindibile del proprio discorso); abbondante uso scenico della parola (ora letteraria, ora poetica, ora intimistica-espressiva, ora quotidiana); interpretazione prevalentemente naturalistica, con uso del corpo didascalico/esplicativo rispetto al tema che si affronta, con tutti gli elementi della messinscena volti -per via ora descrittiva, ora apertamente simbolica- a servirne la veicolazione.
Ciò è emerso con forza (solo alcuni esempi, per chiarezza) nel sofferto coming out oggetto di Alexis 2.0 di Aristide Rontini, nella tematica esplicitamente femminista dello studio proposto da Giulia Spattini, nel femminile lirico e scalciante incarnato da Antonella Bertoni, nelle pulsioni relazionali cuore della performance interpretata da Martina e Camilla Orlandi, nel doppio energico duetto a tema cinematografico-musicale, tra Woody Allen e Bjork, creato da Balletto Civile, nella materialità funzionale, finanche oggettiva della relazione di Cristiano Fabbri con gli oggetti di scena della sua Natura morta con gioco (una scala di legno, alcune pietre).
Per amor di tassonomia, una parola va spesa per tre creazioni in cui l’aspetto linguistico è emerso con maggiore evidenza e rilevanza rispetto al contenuto referenziale (lo ripetiamo fino alla nausea: non vi è giudizio di merito, in tale distinzione): Étoile di Rita Frongia, in cui un vecchio corpo-teatro -tra Kazuo Ōno e Leo de Berardinis- si offre allo sguardo nell’atto di dar vita a una micro-partitura di azioni insensate e poetiche (termine qui usato nell’accezione etimologica di creatrici, finanche creaturali), inanellando una sequenza di scene staccate come se neanche il dire univoco e coeso fosse più possibile (questo dramma della/nella forma ci ha, linguisticamente, commosso – cioè portato con sé); il limine abitato da Michela Lucenti in Hamlet Puppet, sorta di onirica (o, meglio, incubotica) lettura danzata con musica, immagini e corpo squassato che da una prospettiva spettrale attraversa l’Amleto evidenziando, del dispositivo scenico, l’aspetto finzionale e, dunque, irriducibilmente linguistico; il nascente Idiota politico di Monica Bianchi in cui l’affiorante ironia è amaro invito al sorriso e al contempo, socraticamente, distanza fra il soggetto e ciò che enuncia.
Grazie alla mappatura offerta da Fisiko! 2022, che aiuta a orientarsi ulteriormente nel nostro presente.
Della scena e non solo.