Un Baobab toccò il cielo dell’Africa, esordio letterario di Giacomo Pozzi

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Il viaggio come mezzo di conoscenza, la rabbia come strumento per non abbattersi, l’importanza di avere cura di sé e degli altri, la forza di restare saldi di fronte alle difficoltà della vita e trovare il coraggio di emergere. Queste sono alcune delle tematiche che Giacomo Pozzi ha deciso di affrontare nel suo romanzo d’esordio Un Baobab toccò il cielo dell’Africa (editore Tempo al Libro). Un romanzo di formazione che sfrutta la metafora naturale del seme e delle radici per narrare una storia di vita e di crescita.

Io ho sempre un po’ scritto per me, per sfogo”, racconta l’autore Giacomo Pozzi. “Tuttavia questo romanzo è nato un giorno, dopo che avevo finito di leggere un libro: ne stavo per iniziare un altro, ma ho visto questo foglio bianco con al centro un punto nero. Ho visualizzato quest’immagine e mi sono appuntato l’idea, ma non riuscivo ad accantonarla e così ho iniziato a lavorarci subito. Quel punto mi ha fatto venire in mente un seme, quindi la potenzialità inespressa che racchiude e l’idea che perché possa germogliare ci devono essere le condizioni esterne. Secondo me una persona alla fine è così. Quindi mi sono riallacciato a questo e ho utilizzato dei simboli, come il baobab perché è l’albero della vita e fiorisce una sola notte: è un po’ come le persone, quando riescono a conoscersi, a comprendere e riscoprire sé stesse”.

Il titolo rimanda a un romanzo di formazione…

“Esatto, il titolo è molto simbolico, molto metaforico e racchiude un po’ tutto il libro e lo si comprende solo una volta che si arriva alla fine. È un po’ come un cerchio che si chiude. Io avevo scritto le prime trenta pagine a novembre, dopodiché una notte che non riuscivo a dormire, mi sono alzato ed è arrivato il titolo come se me lo avesse dettato qualcuno. Una frase detta da qualcuno di invisibile. Dopo tutta la storia è andata dietro a questo titolo. Ho scritto tutto in base al titolo”.

Quindi è arrivato prima il titolo della storia. Il personaggio protagonista invece come è nato?

“Per questo è un po’ difficile, perché ci son tanti colpi di scena. Diciamo che ci sono due personaggi principali, due ragazzi, che sceglieranno due semi da un anziano del paese. Uno di loro dovrà partire per l’Africa, dove succederanno cose anche molto pesanti, soprattutto per una donna. Dovranno quindi scegliere se reagire, se essere spettatori o protagonisti della propria vita, se danzare con essa o lasciarsi schiacciare dalle difficoltà e dalle sfide”.

Giacomo Pozzi
Giacomo Pozzi

Il romanzo racchiude in sé qualcosa di autobiografico? 

“Velatamente, nel senso che secondo me è quasi impossibile scrivere senza descrivere ciò che è una propria esperienza personale: quello che ci circonda, le persone che abbiamo incontrato. Io prendo molto spunto da ciò che osservo, poi lo faccio mio e lo modifico per abbracciare una certa musicalità della storia e del mio tipo di scrittura. Anche su questo, a livello autobiografico, c’è tanto nel senso che le mie reazioni in certi momenti della mia vita sono simili a quelle dei personaggi. Però è tutt’altro. Diciamo che riguarda me senza riguardare me. È come se avesse una vita propria”.

Nella sua presentazione, si legge che è appassionato di permacultura. Questo interesse ha influenzato la storia che ha deciso di raccontare?

“Diciamo di sì, perché una parte appunto è ambientata in Africa in questo centro missionario dove stanno sperimentando delle tecniche di permacultura per recuperare il suolo, perché inaridito, quindi per creare una certa autosufficienza e una rete anche alimentare in quella zona. Poi, ovviamente, è una cosa inventata, nel senso che quel luogo esiste davvero, ma ho creato io tutta questa costruzione. In un certo senso è anche un po’ un supporto ai personaggi, perché si crea una rete quasi familiare all’interno di questo centro, quindi ci saranno alcune persone che fungeranno da figura di riferimento nel momento del bisogno”.

A proposito della sua scrittura ha parlato di musicalità. Come si struttura questo suo stile personale?

“Ho utilizzato dei dialoghi molto decisi, molto incisivi che quasi descrivono il personaggio attraverso le parole che usa. Non mi rifaccio tanto alla descrizione dei personaggi a livello fisico, ma li descrivo attraverso il dialogo. Nello scrivere poi ho cercato di seguire una certa musicalità, come un fluire d’acqua: ho cercato di eliminare le ripetizioni e di essere poetico. Andrea Pagani, che ha fatto la prefazione del mio libro, ha detto che il mio descrivere spesso è sgrammaticato, esce dai canoni tradizionali, però questa cosa funziona, perché si denota proprio uno stile mio personale. I pochi che hanno già finito di leggere il libro, mi hanno detto che sono un descrittore della sensorialità, nel senso che attraverso una descrizione riesco a imprimere sulla carta delle sensazioni. Io mi rifaccio molto a quello che mi dicono, perché scrivendolo non me ne accorgo neanche tanto sono immerso in quello che faccio, quindi un feedback da terzi è molto utile”.