Sono Fame, Natalia Guerrieri racconta il suo romanzo

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Natalia Guerrieri

Chiara, una giovane rondine, sfreccia per le strade di una metropoli tentacolare a bordo della sua bicicletta. La giovane rider si destreggia tra un portone e l’altro consegnando cibo a domicilio, mentre dalla chat sempre attiva ogni suo gesto viene monitorato e ogni suo successo ottiene un punteggio. Questi sono gli elementi attorno ai quali si struttura la trama, a metà strada tra realtà e distopia, di Sono Fame, il nuovo libro di Natalia Guerrieri.

“Il libro è nato nei miei anni post universitari, nel momento in cui vedevo che io stessa e le persone che conoscevo stavamo avendo un percorso diverso da quello che avevamo immaginato: avevamo studiato molto e praticamente tutti provenivamo da un percorso universitario a cui era seguito un master e uno stage, ma soltanto pochi di noi avevano trovato il lavoro che volevano sia nella tipologia, cioè in quanto contenuto, sia nella forma, vale a dire tipo di contratto, retribuzione, numero di ore, luogo di lavoro”, racconta l’autrice.

Si tratta quindi di una storia collettiva?

“Sì, in qualche modo è stato qualcosa di collettivo: io non ho una scrittura di tipo autobiografico e la mia vicenda personale non sarebbe bastata a farmi produrre una storia. Di solito inizio a scrivere quando c’è una situazione che non riesco a risolvere, quando c’è qualcosa nella mia vita con cui non riesco a riappacificarmi. Questa vicenda, penso generazionale, era una situazione con cui non riuscivo a riappacificarmi. Può sembrare paradossale, perché io scrivo spesso con elementi fantastici: sia il mio libro precedente [Non muoiono le api ndr] sia questo non sono catalogabili in un genere ma utilizzano l’elemento del fantastico e lo ibridano. Infatti, né quello precedente né questo si possono dire totalmente distopie o totalmente fantastici. In Sono fame ho mescolato diversi generi, l’horror, il weird, il new weird, il fantastico, la distopia. In ogni caso, la situazione da cui sono partita era una situazione problematica nel mio vissuto, perché ci tengo molto a cercare di fare i conti con il presente: non per realizzare reportage o per fare il bollettino di ciò che sta accadendo, ma perché penso che non si possa prescindere da ciò che ci circonda nel momento in cui scriviamo”.

A proposito dei generi: la tendenza a prediligere elementi del fantastico e della distopia è predisposizione naturale o c’è una ragione dietro alla scelta di questi specifici generi letterari?

“Di sicuro mi viene naturale: sia le narrazioni che amo sia le narrazioni che amo scrivere hanno questa componente. Tuttavia, non è qualcosa di esclusivo: mi piace leggere anche libri realistici e scrivere cose realistiche. Il fatto di utilizzare diversi generi narrativi ha qualcosa a che vedere con le narrazioni anche più contemporanee, penso per esempio alle serie TV, in cui si pone il problema dell’ibridazione dei generi. Forse siamo ancora un po’ timorosi rispetto alla possibilità di mescolare il giallo, l’horror, la fantascienza, la distopia. Tuttavia, in realtà, nella narrazione del contemporaneo, i media cinematografici già lo fanno e penso che questo sia molto interessante, perché il linguaggio per poter narrare la contemporaneità deve evolversi continuamente”.

Come spiegava, l’ispirazione deriva da un sentire condiviso. L’utilizzo del verbo essere invece che avere nel titolo sembra suggerire infatti una condizione non solo della protagonista ma di una generazione.

“Non pretendo di parlare per una generazione, perché ogni persona ha diritto a raccontare la propria storia. Tuttavia, non penso che sia una storia solo mia e, nel momento in cui la storia non è solo mia, è come se ci riappropriassimo del nostro tempo. Non mi piace che siano altre generazioni a raccontarci e a definirci con dei titoli di giornale altisonanti che dicono che non abbiamo voglia di lavorare. Preferisco che siano le persone coinvolte in una determinata condizione esistenziale a definirsi. La letteratura negli ultimi anni ha fatto questo passo avanti, cercando di dare la parola ai diretti interessati. Quindi in questo senso sì, è generazionale. Molte delle vicende che racconto mi toccano in prima persona: non per forza in un senso contingente – io non ho fatto la rider – ma, come avviene in letteratura, tramite una trasposizione. È un sentimento, una situazione che io ho vissuto e che le persone attorno a me hanno vissuto e che io sto raccontando. Il rappresentarla con un mestiere piuttosto che con un altro è una scelta letteraria. Ho scelto la rondine, chiamandola rondine e non rider volutamente per creare uno scarto tra quella che è la condizione del rider contemporaneo e quella che invece è la rondine nel mio libro, che è qualcosa di diverso sotto molti aspetti pur avendo dei punti in comune”.

Nel libro il lavoro della rondine subisce un processo di gamification, nel senso che viene trasformato in auna sorta di videogioco, con livelli e punteggi. C’è un significato metaforico dietro questa scelta?

“Sì, ho cercato di ritrarre una mentalità. Spesso ho avuto l’impressione che la mia vita fosse una sorta di gioco a punti, in cui dovevo sempre dare il massimo, battendo gli altri, ma soprattutto sfidando i miei limiti personali. È quello che succede anche alla protagonista: superare gli altri ma anche se stessa, che è ancora più drammatico perché il conflitto è interno alla persona e quindi non ne può uscire, non può scappare. È un po’ la narrazione con cui siamo stati cresciuti noi nati nei primi anni Novanta: la narrazione tossica secondo cui se vuoi ce la fai, se ti impegni tanto vinci, la narrazione del self made man, per intenderci. È una narrazione assolutamente tossica, perché assegna la responsabilità del successo e del fallimento (termini che non mi piacciono e che metterei tra virgolette) tutto sulle spalle della persona, quando in realtà sappiamo benissimo che sono un complesso di cose a determinare la nostra esistenza. Certo, c’è un insieme di obiettivi e sforzi personali, ma non possiamo prescindere da tutto il resto, anche se il mondo del lavoro ci chiede di farlo. Il mondo del lavoro ci chiede di fare finta che il contesto non esista, che il nostro corpo non esista, che le relazioni non esistano. Tutto ciò è follia pura. In realtà, è per un insieme di motivi che si arriva a fare un lavoro piuttosto che un altro, motivi che sono anche sociali e politici. In questo senso mi piace provare a scrivere qualcosa di politico, non per mettermi dalla parte di un partito, ma per provare a mettere l’accento su quelle che secondo me sono le questioni oggi particolarmente importanti”.

Il termine rondine usato per indicare i rider nel romanzo diviene anche un espediente per parlare in modo approfondito della corporeità?

“Il motivo per cui ho scelto di raccontare la storia di una rondine è proprio questo: volevo raccontare di un lavoro che mettesse il corpo al centro e volevo far vedere il corpo in movimento, sotto sforzo, in pericolo. Infatti nella capitale tu sei costantemente in pericolo. Questo fa sempre parte anche della dinamica della gamification che ho cercato di rappresentare. Il corpo è molto importante secondo me, perché oggi pensiamo sempre che il lavoro sia smaterializzato, che tutto sia digitale, ma non è così. In realtà, nascondere il corpo provoca problemi a chi lavora. In più, mi interessava parlare del corpo della donna perché ultimamente ci si sta ponendo alcune questioni importanti, come per esempio la possibilità di avere dei giorni per stare a casa quando si ha la sindrome mestruale. Negare questo diritto è una negazione del corpo: è come se si dicesse che le lavoratrici sono donne nel momento in cui bisogna decurtare il 30% del loro stipendio, ma negarle quando invece devono stare a casa perché stanno male; affermare la loro femminilità nel momento in cui sono oggetto di attenzione sessuale – e quindi devono anche sopportare tutta una serie di maltrattamenti sul luogo di lavoro – ma negarla quando rimangono incinte e vengono licenziate. Penso quindi che il corpo sia centrale perché è proprio terreno di battaglia. In questo discorso ovviamente non voglio includere solo le donne, ma tutti i lavoratori e lavoratrici: il negare che il corpo biologicamente abbia bisogno di ore di riposo e che abbia bisogno di uno spazio adatto alla vita lavorativa è dannoso. Tutto questo fa parte del benessere della persona. Penso che questa narrazione distorta faccia comodo a molti e per questo è importante ribadirlo, non per fare del pietismo nei confronti dei rider o di altre categorie di lavoratori, ma per sostituire una narrazione che va in una certa direzione con una narrazione diversa”.

Nel romanzo la città d’ambientazione non viene mai specificata. Come mai?

“Questa città è una metafora fondamentalmente del neoliberismo, infatti nel momento in cui si arriva nella capitale la scelta è essere mangiati o mangiare. Poi mi piaceva il fatto che ciascun lettore o lettrice potesse intravedere in questa immagine la città che vuole. Può essere Milano, può essere Parigi, può essere Roma, può essere un miscuglio di varie città. È soprattutto il rapporto che noi abbiamo avuto con una determinata realtà spaziale che ci porta a identificare in questa capitale una città piuttosto che un’altra. Tuttavia, penso che anche negli ultimi anni ci siamo resi conto di quanto un certo modello di città sia invivibile e insostenibile: il modello in cui siamo tutti ammassati, non abbiamo spazio, non c’è verde pubblico. Con il Covid ci siamo resi conto di quanto queste realtà fossero delle città dormitorio e il tema dell’abitare gli spazi urbani è tornato a essere un argomento all’attenzione di molti, perché in questi momenti di emergenza si fa un passo indietro e si guarda a quello che si ha davanti. Però non dovrebbe essere così, dovrebbe essere un discorso da fare a monte nella progettazione degli spazi di vita e di lavoro.”