«Il primo comandamento è: “Non umiliare!”, il primo, il più importante, non dimenticarlo! (…) Io ti allontanavo. Allontanavo il mio babbo, la mia vera guida. L’unica persona che mi abbia detto cose indimenticabili. Eppure non era un parlatore. Quante ne ricordo, di frasi pronunziate da lui con estrema noncuranza. E ancora mi fanno lume».
Gianna Manzini nasce a Pistoia nel 1896. I genitori si separano presto a causa del contrasto tra le idee anarchiche del padre e le aspettative della ricca famiglia d’origine della madre. Gianna si trasferisce a Firenze dove completa gli studi, si sposa e inizia, molto giovane, a pubblicare racconti e romanzi. Il successo e la partecipazione al vivace dibattito culturale, l’apertura verso la narrativa europea, la portano a Roma con un nuovo compagno di vita, Enrico Falqui, dove morirà nel 1974. Oltre all’impegno letterario e ai numerosi premi ricevuti, al lavoro culturale di ideazione e collaborazione a nuove riviste, Manzini ha scritto come cronista di moda per varie testate nazionali.
RITRATTO IN PIEDI
Ritratto in piedi è l’ultimo romanzo di Gianna Manzini, pubblicato nel 1971, con il quale vince il premio Campiello e ottiene una notorietà tardiva.
Gianna, oramai anziana, si appresta a scrivere del babbo. Prova e riprova, fino a che, sulla sua tomba nel cimitero di Cutigliano, un piccolo paese della Lunigiana, scocca finalmente «l’attimo di un indecifrato appuntamento», dove il nome sulla lapide (Giuseppe Manzini 1865-1925) le riverbera dentro: pur sentendolo inverosimilmente lontano, lo ritrova scolpito dentro di sé, parte del mistero della propria vita. «Lui. Un uomo. Mio padre, In quel momento sapevo che era esistito (una vita piena di significato, oltre che di avvenimenti importanti), che era il mio babbo e che era morto da tanti anni. Non dolore, adesso. Sbigottimento.»
Il racconto procede per lampi e immagini, attraverso ai suoi ricordi di bambina, fatti di strade e personaggi, dialoghi, impressioni e odori, episodi circoscritti che restituiscono però il rapporto con l’amatissimo padre a lungo rinnegato, mostrando il senso profondo di quell’esistenza, la traiettoria di vita dell’uomo e dell’anarchico, ma anche le tensioni di un’epoca intera.
La sua è una lingua poetica, capace di accostamenti verbali insoliti, che riescono a descrivere un visibile che dovrebbe esserci familiare, ma che da soli non saremmo in grado di cogliere. Nelle prime pagine del libro l’apparizione di un corteo anarchico restituisce la potenza dell’idea libertaria, in contrasto con la noia organizzata di una cittadina provinciale di fine Ottocento: gli anarchici passavano cantando, decisi, tra lo sventolare delle bandiere. Passavano emanando una malinconia gagliarda, paura ed ebrezza. L’ardire di quegli uomini poveri e compatti costituiva un’offesa per i notabili della famiglia materna, che vedevano messi in discussione il loro ruolo e i loro privilegi.
Gianna è una bambina consapevole della frattura che lacera la sua famiglia, figlia dell’anarchico e per questo oggetto di esclusione e di ritorsioni a scuola.
Quando il padre si adopera per sostenere lo sciopero degli operai nella fabbrica del suocero a Grosseto, di cui è socio, la madre si vede costretta a fare ritorno alla famiglia d’origine e alla definitiva separazione dal marito, nel 1900.
A distanza di anni lo zio materno continua a invocare la forca per il traditore incapace di occuparsi del proprio profitto e quindi della propria famiglia. E per contrasto Gianna ritorna alle parole di Errico Malatesta, il più importante teorico e rivoluzionario anarchico italiano, che tante volte il padre le ha ripetuto: “Se per far trionfare l’anarchia occorresse applicare la forca, rinuncerei alla rivoluzione!”
Gianna incontra Malatesta nella bottega di orafo e orologiaio del padre, camuffato con parrucca e baffi finti e sente emanare da lui «una dignità, un’investitura che gli veniva da lontano; e che egli sembrava voler ignorare.»
Il padre è descritto con la stessa ammirazione: «Quanto sereno spazio per quella sua irriducibile e possente nobiltà. Il suo portamento è un retaggio: contro di esso, la sua umiltà non ha potuto nulla. Un retaggio: che lo condanna a esporsi; a esporsi sempre; a pagare di persona; a far sì che le sue parole abbiano una convalida indiscutibile, raggiante».
Giuseppe Manzini come la maggior parte degli anarchici sarà ripetutamente arrestato e incarcerato, per avere espresso le proprie idee politiche. Sarà quindi condannato al domicilio coatto a Cutigliano, alla fine del 1921, nel pieno dell’ondata di violenza fascista e degli scontri con gli antifascisti che insanguinavano la Toscana e Pistoia. Nel 1925, a fine settembre, verrà aggredito da alcuni fascisti locali che lo feriscono lanciandogli delle pietre e morirà di infarto due giorni dopo.
MIO PADRE, UN ANARCHICO
A Pistoia, anche per volontà della madre, Gianna continua a frequentare il padre. Dopo il trasferimento a Firenze nell’autunno del 1914 manterrà con lui un rapporto saltuario e distante, tentando di offuscare le lacerazioni della sua vita precedente. Il senso di colpa irreparabile, per non essergli stata vicina, la perseguiterà fino a quando anziana ripercorrerà il suo difficile legame con lui.
La grandezza di questo romanzo sta proprio nel tono del racconto, che nulla spartisce con le noiose agiografie di padri, sempre più diffuse.
Ciò che cattura il lettore è la capacità di ricostruire la complessità e il dolore che inevitabilmente caratterizzano la relazione figli-genitori, la fatica di definire sé stessi in relazione ai nostri modelli primari, per quanto positivi o negativi essi siano.
Gianna Manzini ritrova le tracce che portano al padre e come dice Hanif Kureishi: “Mio padre ha tracciato tutte le mappe, appartengono a lui, (…) Oltre c’è il caos, l’ignoto, e questo è il solo posto dove andare, il solo su cui fare rotta.”
Ritratto in piedi riesce ad attivare continuamente nel lettore quello che Roland Barthes chiama il “punctum” nella fotografia. Qualcosa che colpisce, oltre all’aspetto puramente sociale o razionale, e ci mette in relazione con l’essenza delle cose.
Le assonanze fortissime tra il padre e la figlia, assieme alla lacerazione tra ciò che Gianna era e ciò che le chiedevano di essere, gettano luce anche sulle nostre emozioni, contradditorie e complesse, che hanno a che fare con la costruzione di noi stessi in relazione all’esempio dei padri.
«Ma la cosa tremenda è che bisognava che tu non ci fossi, babbo, perché io potessi finalmente calarmi tutta nella mia repentina, rapinosa giovinezza. Ti allontanavo. Chiudevo gli occhi sul pensiero di te, mio orgoglio, mio vero blasone, mio maestro assoluto, poesia fatta vita. Una lettera la settimana, sì senza dubbio, con tante notizie; come no? Ma bisognava evitare il pensiero che ogni giorno rischiavi il linciaggio, che certo avevi freddo, talvolta, chi sa, anche fame; e che eri solo»
L’uomo, che tanto dolore ha provocato suo malgrado, è portatore di un messaggio più alto, assoluto, che illumina la vita successiva di Gianna.
L’ideale anarchico appare in tutta la sua bellezza: non una ideologia da applicare o una fede politica, ma prima di tutto una dimensione esistenziale che non permette separazione tra la vita e l’idea, dove l’interiorità è coinvolta profondamente e prevalgono la dignità, il coraggio e l’amore per gli esseri umani. Il padre le ha insegnato a sentirsi parte di qualcosa di più grande in cui tutti siamo legati, a esporsi sempre, anche a costo della propria vita.
Non è un caso che ritorni alla mente di Gianna un nome, l’unico femminile: quello della “limpida anarchica” ravennate Gigia Minguzzi, descritta a cucire abiti per le ricche signore, con gli spilli in bocca, che nasconde però sotto al letto pacchi di foglietti stampati alla macchia, contenenti le sue vibranti parole per l’emancipazione delle donne.
Gianna Manzini, Ritratto in piedi, Ortica editrice, 1971, pp.205
Hanif Kureishi, Il mio orecchio sul suo cuore, Bompiani, 2004, pp. 235
Info: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/14004-manzini-giuseppe