“Nel 2000, a New York, mentre veniva trasportata al mattatoio di Brooklyn, una mucca pezzata rossa iniziò a correre via per salvarsi la vita. La fuga andò a buon fine. Anche se era previsto che Queenie, come fu poi ribattezzata, dovesse essere riportata al macello, lo sdegno dell’opinione pubblica le risparmiò questo destino atroce.”
Sarat Colling, Animali in rivolta, p.51
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Produci, consuma, crepa
Quando ero piccola, così piccola da non avere ancora accesso al pensiero formale, mi interrogavo sugli oggetti. Sulla relazione fra oggetti e attività degli animali umani. Intorno a me vedevo persone molto occupate, intente a dedicare tempo ed energie alla creazione di progetti che immaginavo importanti e specialissimi. Non ne capivo finalità e contenuti, ma non nutrivo alcun dubbio sul fatto che dovessero essere grandiosi. Sono cresciuta, e ho iniziato a studiare. Parole come rivoluzione industriale, reificazione, capitalismo, neoliberismo sono entrate nel mio vocabolario. Ho cominciato a comprendere che tutto quel tempo e quelle energie erano rivolte al produrre cose che servivano a mantenerci in vita per poter fabbricare e accumulare altre cose. Che non esisteva manifestazione che non potesse essere trasformata in roba. Sono entrata in contatto con idee come bisogni indotti, proprietà privata, biopolitiche di controllo sui corpi e sulle riproduzioni (di ulteriori individui da immettere nel sistema di produzione e consumo), acquisto compulsivo come autocompensazione, sfruttamento delle persone lavoratrici.
Di tutte le persone lavoratrici, comprese quelle non umane.
L’immagine in calce, nell’inversione di ruoli, mi aiuta a renderlo evidente. In barba alla nostra parentela mammifera noi, genere Homo, ci siamo resi incapaci di svezzarci da soli e abbiamo deciso per capriccio di trasformare i bovini, genere Bos, in caseifici ambulanti. Io, in barba allo splaining, vorrei puntualizzare che la mucca deve figliare per produrre latte, esattamente come la femmina umana, e affinché il latte finisca al centro commerciale i vitelli devono essere allontanati dalla madre appena nati. I vitelli senza latte saranno quindi alimentati artificialmente, e uccisi entro gli 8 mesi per essere venduti come carne. La femmina bovina, invece, privata dell’incombenza del dover allattare il cucciolo sarà rifecondata, affinché il ciclo produttivo del succo mammario non subisca interruzioni. In tutto questo flusso, le urla che accompagnano queste separazioni, ben celate nelle stalle e nei macelli, sembrano avvicinarsi assai a quello che noi animali umani chiamiamo “dolore”.
L’antispecismo ci dice che possiamo parlare di sfruttamento tutte le volte che il ciclo biologico di un essere vivente è controllato, disconoscendone l’autonomia e trasformando in merce quell’agglomerato di cellule senziente, o i suoi prodotti. Se a tale individuo vengono altresì negate identità e possibilità di avere liberi rapporti abbiamo un upgrade, che corrisponde al dominio. Quello che distingue animalismo e antispecismo è che il secondo include la specie umana nel regno animale, considerando sfruttamento e dominio azioni che vengono compiute anche sugli animali umani, e criticando la società nella sua interezza quando esercita il diritto di disporre del corpo, della libertà e della vita di un qualsiasi essere dotato di sensibilità. E pensare che alcuni la chiamano assistenza professionale. Alcuni lavoro. Alcuni bistecca. Altri formaggio.
Per una mitopoiesi dell’apocalisse: l’Antropocene
Ci sarà capitato di sentir dire che viviamo nell’epoca dell’Antropocene, cioè in quell’era del pianeta terra che considera l’uomo (eh no, non ho scritto essere umano) al centro, e la sua influenza per decidere la direzione dei cambiamenti globali più determinante di qualsiasi altro fattore ambientale. L’attività dell’uomo è diventata talmente intensa da andare ad incidere sui processi geologici, provocando modifiche al clima e ai territori. Alcuni esempi virtuosi? Alluvioni, inondazioni, effetto serra, riscaldamento globale, estinzioni di massa. Già qua potremmo fare un “fermi tutti” chiedendoci quale uomo?, ma rimandiamo questa trattazione ad una puntata successiva.
Solitamente chi crede che l’Antropocene sia un bene, o quantomeno lo giudica una “realtà” inalienabile, si trova ad occupare posizioni speciste, ritiene cioè che l’homo sapiens sia per qualche ragione superiore a tutte le altre forme di vita terresti. Reputa inoltre che le specie non sapiens, non trovandosi a godere dello stesso spessore di corteccia cerebrale, non si possano aggiudicare nemmeno gli stessi diritti.
Lo specismo contrappone la nozione di egosistema, cioè di “sistema proprietario, che induce dipendenza e condiziona” (cit. Treccani online) a quella di ecosistema, comunità biologica interdipendente nella quale la sopravvivenza del singolo è legata a quella di tutti gli individui, in uno scambio continuo di materia ed energia (più relazioni, affetto, reciprocità, mutuoaiuto). Nell’egosistema il sapiens, quando si rivolge a forme di vita non umane, si limita a definirle animali. Ricorrendo al caro pensiero binario semplicemente divide in due: noi umani e loro animali. La realtà biologica è ben diversa, perché gli esseri umani appartengono al regno animale, nello specifico alla classe dei mammiferi. Con le mucche e i maiali, le scimmie e le pecore, i cervi, i cani, i lupi e tanti altri. Per saggiare il brivido di questo posizionamento alternativo, possiamo provare a rivolgerci alle nostre parentele in modo diverso. Potremmo iniziare parlando di animali umani e animali non umani, anche se la seconda categoria rimane intrisa di affollamento indifferenziato. Proposte più ampie sono le definizioni universali di persone animali o persone terrestri, che si rifanno ad un etimo della parola persona che richiama sia il concetto di “corpo” che di “individuo capace di diritti e doveri”.
Un esempio di ecosistema è invece quello sul quale si basa la teoria dell’endosimbiosi, sviluppata dalla biologa e genetista statunitense Lynn Margulis per spiegare la genesi della vita. In questo modello unità evolute (eucarioti), progenitrici degli organismi più complessi, si sarebbero sviluppate quando corpuscoli semplici (procarioti) si sono introdotti in cellule di maggiori dimensioni, che invece di fagocitarli hanno offerto nutrimento in cambio di energia. Forse perché enunciata da donna, forse perché poco virile in termini di predazione, la tesi di Margulis ha impiegato molto tempo per avere credibilità in ambito scientifico, e ancora sussistono perplessità. Ma non è bellissimo immaginare che proprio da qui sia partito il lungo percorso che ha portato alla comparsa (anche) del sapiens? Da una scelta vegana? E per noi, che di cellule ne abbiamo trilioni e siamo dotati di una straordinaria neocorteccia cerebrale, perché resta così difficile ritornare all’origine e accettare che dobbiamo la nostra stessa esistenza alla cooperazione mutualistica e transpecifica?
Ritorno al presente
In antitesi all’idea unica dell’Antropocene, l’antropologo e filosofo argentino Rodolfo Kusch ci parla di due modi molto diversi di abitare l’universo spazio-temporale e relazionale.
Il primo è il mondo dell’essere, prerogativa dell’Occidente, che evoca il patto sociale del giusnaturalismo o il discorso freudiano de Il disagio della civiltà, cioè la rinuncia alla libertà per la sicurezza di norme, vincoli e sanzioni. A livello spaziale l’uomo d’Occidente ha costruito la città per proteggersi dalla natura. Il suo tempo è una costante tensione al futuro caratterizzata dalla dimensione del progetto. Le comunità (persone anziane o disabilitate, animali non umani) avulse dell’organizzare piani che si concretizzeranno a posteriori non accedono alla misura del valore, del diritto, e sono sostanzialmente sfruttabili o inutili. L’uomo d’Occidente impernia la sua vita sulla mancanza, su ciò che è assente in quanto abita l’avvenire; tutto in lui è desiderio insoddisfatto, incompletezza, e cerca pace nella promessa di una vita (spirituale e/o digitale) oltre la vita.
All’opposto esiste il mondo dello stare, proprio del meticciato. Come in una spirale procede nella storia, ma libero dal conflitto perché il tutto esiste solo qui e ora. Se ci trasferiremo lì non ci servirà fare sintesi ma attivare la pratica dell’accoglienza, non ci occorrerà far progetto ma sintonizzarci su cicli che accadono a prescindere dalla volontà sapiens e dalla corsa alla produttività. Lo spazio è la natura, intesa come dimensione che trascende e contiene, il tempo è il presente accolto in uno stato simile all’estasi. Nello stare più si “ha” presente e più si ha valore, affrancati dall’oppressione di un futuro che non ha più significato come orizzonte dell’azione individuale, perché quel che conta è la relazione e l’ibridazione con la differenza. Etty Hillesum lo chiamava il “saper stare nella croce del tempo”, e le persone più accorte ne hanno avuto un piccolo assaggio durante il lock-down. Nel nostro quotidiano iperurbanizzato sa bene di cosa stiamo parlando chiunque decida di essere complice alla pari di un animale non umano, andando alla ricerca d’erba in una contaminazione meticcia di spazi e tempi fuori da logiche di sfruttamento e dominio.
Nel Trattato teologico-politico del 1670 Spinoza affermava che “non può accadere che l’animo sia in assoluto di diritto di un altro, giacché nessuno può trasferire ad un altro il proprio diritto naturale, ossia la proprio facoltà di ragionare liberamente e di giudicare di qualunque cosa, né può esservi costretto”. Cosa è andato storto?
Gli animali non umani ci osservano come noi animali umani osserviamo loro. Pensiamo di essere cacciatori, e così non ci accorgiamo di essere prede, oggetti di studio. Sono cresciuta in un ambiente fortemente definito dall’umano, e di base temo il contatto con il cosmo selvatico, ne ho poca dimestichezza. Non ho unghie, né zanne, non veleno, e nemmeno sufficiente capacità di orientamento. Vivo con una cagna, un gatto e una gatta, e sono attanagliata da dilemmi morali sul dove stia il limite, nelle mie azioni, tra tutela, dominio e bisogno di credere in un’alterità addomesticabile. La fiducia con la quale questi esseri senzienti mi accompagnano (frutto di un processo di domesticazione iniziato 12.000 anni fa) mi strugge, e sento forte la responsabilità di specie per quello che abbiamo fatto chiedendo loro di adattarsi alle nostre specificità. La mansuetudine con la quale la maggior parte di loro soggiace alla violenza e alla superficiale noncuranza di cui siamo capaci mi spezza. Per imparare a riconoscere quello sguardo di pacifica protesta e sottrarci all’idea imperante dell’Antropocene dobbiamo farne di strada, a maggior ragione perché abbiamo questa sfiga di essere persone d’Occidente. Quindi gambe in spalla che inizia l’allenamento per il cammino, quando si passeggia con i sassi nello zaino.
Workout for beginners:
- Riconoscere l’antropocene come una creazione parziale, sapiens, occidentale e mbeb (maschia/bianca/etero/basic).
- Fare attività di riappropriazione, rivendicando le nostre facoltà tramite un ritiro della delega all’utopia che abbiamo accordato a diverse forme di potere (politico, economico, letterario, artistico, e via dicendo).
- Praticare la leggerezza dello stare togliendoci per una benedetta volta dal centro di tutte le storie e ritornando all’animismo. L’umano è la misura solo delle cose dell’umano, cosa vuole la mucca, l’albero, la roccia, non lo sappiamo.
- Ripetere il mantra: non siamo obbligati a riproporre il sistema, possiamo deantropizzare.
- Stare ritirati e in contrazione, escogitare altri mondi possibili, rendere il latte ai vitelli, costruire parentele postumane, fermare la mano di fronte a quel che non serve, liberarsi dall’ipnosi che consegue dall’aver abdicato alle facoltà cognitive e creative, sedere tranquillamente godendosi il digestivo dopo un pasto vegetale e leggero.
Dobbiamo molto alle persone non umane. Ci hanno sfamato, scaldato, aiutato; con la caccia abbiamo sviluppato le capacità di orientarci, ricercare, sviluppare strategie, pianificare azioni: ci hanno modellato. Le nostre case sono tane, le nostre strade piste. È ora di essere riconoscenti e inventarsi un’alternativa, lasciando spazio a narrazioni e geografie nelle quali chi sopravvive e si espande è il più debole. È ora di sdegnarci e diventare animali umani, trasformando gli oggetti in soggetti.
Fermiamoci a non fare, mettiamo un freno alla voracità.
Pratichiamo, piuttosto, immaginazione e reciprocità.
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Letture:
Angela Balzano (2021), Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane, Meltemi
Sarat Colling (2017), Animali in rivolta. Confini, resistenza e solidarietà umana, Mimesis
Matteo Meschiari (2019), La Grande Estinzione. Immaginare ai tempi del collasso, Armillaria
Visioni:
Barbara Daniels https://www.barbaradanielsart.com/
Sue Coe, Queenie escapes the slaughterhouse, PAFA Pennsylvania Academy of the Fine Arts