L’attore, regista, drammaturgo e poeta Andrea Cramarossa non è nuovo ai progetti complessi: da molti anni con il Teatro delle Bambole, da lui diretto, persegue una ricerca rigorosa e visionaria, affatto peculiare nel panorama italiano e non solo. In questi mesi si stanno manifestando alcuni approdi del pluriennale lavoro su Hermann Nitsch, in particolare sul suo Edipo Re, testo-progetto finora mai messo in scena.
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Sebbene sia argomento vastissimo e complesso, a favore di chi non conosce il vostro lavoro ti chiedo uno sforzo di sintesi e chiarezza: quali sono le principali affinità tra la ricerca del grande artista dell’Azionismo viennese e le vostre?
È vero, ci sono molte affinità, direi, più che altro, ci sono molte dinamiche e molte direzioni che scavano nelle profondità dell’essere umano che sento appartenermi. I concetti di Orgia e di Mistero, sono alla base del mio lavoro con gli attori nel Teatro delle Bambole. Intendo entrambi come una possibilità di connessione con la gioia della vita, che non è né una forma di allegria e né, tantomeno, una forma di divertimento, entrambe fuorvianti e che attengono più al vivere che alla vita in sé. Scoprire l’origine, il luogo, nel corpo dell’attore, dove questa gioia pulsa, perché pulsa continuamente in ognuno di noi anche se non ce ne rendiamo conto, è fondamentale per evitare tutte quelle forme di recitazione teatrale che sono simulazione, fiction, maschera. Per me, la maschera è la forma che questa gioia prende durante il percorso di scrittura, ad esempio, o di improvvisazione. Far emergere il fondo di sincerità nella maschera, è impresa spesso ardua.
E quali differenze individui, in primis rispetto alle funzioni simboliche che mi sembrano preminenti sia nel suo che nel vostro percorso?
La mia ricerca ha mantenuto un contatto costante col lavoro di Nitsch e non solo. Sono evidenti, almeno per chi conosce Nitsch, i percorsi di trasgressione remota e di abreazione in tutti i miei spettacoli. Ciò che ho tentato di fare è stato anche portare questo patrimonio poetico all’interno dell’arte drammatica, come processo per l’attore di individuazione di un percorso sincero, autentico, al di là della forma in cui, poi, dovrà ascoltare la scena. Per me, l’attore deve ascoltare la scena e non agire; l’azione scenica è, in realtà, un atto e non un’azione in sé, poiché essa è già avvenuta, prima ancora di andare in scena, prima ancora di recitare la prima battuta. In questo senso, il percorso si fa più avventuroso: come poter essere pienamente azione in un contesto che tende alla finzione? Ho eliminato dal mio vocabolario il verbo “giocare”. Per me, non si gioca al teatro e il teatro non è affatto un gioco (serio); è tante altre cose, tra le quali una precisa elaborazione delle dinamiche interiori che appaiono in una data forma. Concepisco l’arte teatrale, appunto, come arte, al pari della pittura e della scultura. Questa concezione deriva principalmente dal lavoro ventennale sul suono e sulle dinamiche spazio-temporali, un lavoro che, nel suo complesso, mette continuamente in discussione il proprio ego.
Poche settimane fa a Napoli, al Museo Archivio/Laboratorio che a Hermann Nitsch ha dedicato il mecenate Giuseppe Morra, hai guidato una masterclass internazionale residenziale a partire dal suo Edipo Re. Perché hai scelto proprio questo testo? Attraverso quali passaggi vi sei arrivato?
Edipo Re di Nitsch è rientrato nel più grande progetto sul mito di Edipo iniziato lo scorso anno a Gravina in Puglia (BA), all’interno del Festival InClaustri, con un workshop sull’Edipo di Sofocle e grazie alla lungimiranza di Marisa D’Agostino. E, ancora, continua questo progetto di ricerca pluriennale sulla versione di Friedrich Hölderlin, Edipo il Tiranno, al Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi grazie all’accoglienza di Riccardo Carbutti, passando da Cocteau, la sua Macchina Infernale in pieno Salento, a Melpignano, grazie ai progetti messi in campo da OTSE – Officine Theatrikés Salento Ellàda di Pietro Valenti.
Sono arrivato al testo di Nitsch, con mia gioia, attraverso la notizia della sua nuova pubblicazione ad opera delle Edizioni Morra (EDIPO RE. Una teoria di rappresentazione del dramma 1964, Edizioni Morra, Napoli, 2001). Da qui, la volontà di proporre, finalmente, un lavoro per me “più facile” perché vi sono calato da sempre, nel senso della ricostruzione di alcune dinamiche a cui accennavo prima, all’interno del lavoro dell’attore e, naturalmente, devo ringraziare Fondazione Morra e Museo Hermann Nitsch per questa opportunità unica e sublime nonché Casa del Contemporaneo di Napoli per il sostegno. L’Edipo di Nitsch non è mai stato messo in scena. Spero di poterlo fare io, un giorno, portando l’opera nei teatri: sarebbe una proposta che in sé manterrebbe tutto il processo dell’Azionismo e dell’Arte Drammatica in un contesto dove, ormai, si è soliti avvicinarsi assuefatti all’abitudine mondana del momento, laddove ogni cosa viene inghiottita dal sistema. Compresa l’arte, che il sistema dovrebbe contraddirlo e, proprio per questo, continua a fare il suo gioco, a oleare i suoi ingranaggi. Essere sfuggenti, trovare vie di fuga, selezionare con maestria i tasselli da smantellare. Credo sia necessario un potente risveglio dei sensi.
Nitsch è da molti anni un vostro esplicito riferimento. Quali sicurezze e quali rischi offre, il suo Edipo Re? E in cosa esso differisce rispetto alle altre sue creazioni?
L’arte di Nitsch è irripetibile, legata, a mio avviso, solo a lui, alla sua persona, al suo estro, alla sua filosofia. Non si può che contemplarla, ascoltarla, viverla. Ho molto rispetto verso tutto ciò che gli artisti mettono in campo, ossia mettono a nudo, rischiando sempre il tutto per tutto. Questa è una lezione. Il rischio è perenne, è costante, indipendentemente dai testi di riferimento. Un rischio, ad esempio, potrebbe proprio essere quello di aspettarsi da un artista qualcosa di preciso, che avviene o che conosco, come spettatore, che, cioè, avverrà in scena, perché è ciò che voglio vivere in quel momento. L’atto artistico (l’artista) diviene, quindi, un idolo, di cui ho bisogno per ritrovare certe cose di me e, forse, bruciarle al di fuori di me. I miei lavori, ad esempio, nei quali penso sia possibile riconoscere una traccia comune, sono in realtà uno diverso dall’altro. Lo spettatore è spiazzato. Ma se lavoro su Nitsch e la prima domanda che mi vien posta è se ci sarà il sangue vero in scena oppure no, allora comprendo che qualcosa è andato storto, che siamo stati fagocitati nuovamente in questo sonno borghese e, in ugual modo, comprendo anche che una frattura sia indispensabile, che è arrivato il momento di dissacrare. Inoltre, questo Edipo di Nitsch, è un lavoro giovanile, scritto nel 1964 e io trovo che sia estremamente crudo e diretto, scava profondamente nell’indicibile, in tutto quell’universo di atti spostati dalla “normalità” e che solitamente chiamiamo tabù.
Quali caratteristiche hanno guidato la selezione dei partecipanti alla masterclass?
Ho selezionato artisti che avessero una certa propensione a (non) sentire il proprio corpo. Il resto l’ha fatto l’intuizione, alla quale mi affido sempre e che non mi ha mai tradito. Ma, devo dire, in questa masterclass è accaduta una specie di miracolo, se vogliamo, qualcosa di raro che si basa sulla fiducia reciproca. Il gruppo di lavoro è stato magnifico. Le persone hanno compreso la sincerità della proposta e si sono messe a nudo. È stata una grande lezione anche per me e, per questo, voglio ricordare tutti i partecipanti coi quali, certamente, ci sarà una strada futura da percorre assieme. Oltre a Federico Gobbi, attore del Teatro delle Bambole, hanno lavorato Ambra Amoruso, Chiara Bianchi, Dania Grechi, Giuseppe Mongiello, Massimo Melis, Giovanna Guariniello, Vittoria Guarracino, Giulia Meoni, Stefania Boccia, Marika Ruta.
Quali scoperte in merito alla relazione suono-corpo, che è uno dei cardini della vostra indagine scenica, ha portato l’esperienza napoletana?
Ancor di più, ho capito che è possibile contattare questa linea di sincerità nel corpo e nella mente, sebbene sia difficile e che non è, questa linea di sincerità, ciò che, probabilmente, crediamo e cioè un “non-mentire”, non è l’opposto della menzogna e della falsità, ma è un processo delicato che ti mette a contatto stretto con le tue vene, le tue ossa, il tuo sangue, in un vortice di composizione e decomposizione che è la reciprocità che sussiste nell’arte.
Come hai agito, in concreto? E quali no hai detto?
Ho detto no, come mia abitudine, a qualsiasi forma di demoralizzazione e distruzione del sacro, fenomeno che spesso avviene in teatro proprio col fraintendimento del verbo giocare (seriamente), cercando di abbattere qualsiasi tendenza alla finzione. Concretamente ho proposto un lavoro profondo sul rito, sulla ritualizzazione come strumento per accedere al culto, ossia ai Misteri.
Quali differenze principali vi sono tra lavorare con attori del tuo ensemble e con allievi dai percorsi anche difformi, non sempre e solo teatrali? Nello specifico: cosa differisce, funzionalmente, rispetto alla precisione e alla maestria di ciò che è dato a vedere?
Si tratta di due momenti distinti. Una masterclass o un workshop contengono in sé una tensione didattica e pedagogica molto forte. È un processo, generalmente di breve durata, dove l’opera in questione viene sondata, distrutta, ricostruita sempre per la ricerca di quella sincerità che anelo. Non differisce molto, in questo senso, dal percorso di prove che conducono allo “spettacolo” che, però, ha durata molto lunga, anche di due anni ed è sempre all’interno di un progetto di ricerca più ampio. La messa in scena, per me, è una festa, null’altro, cioè è una messa vera e propria, anche con connotazioni religiose e, come tale, deve essere perfetta, poiché è la celebrazione del culto in oggetto e i passaggi rituali devono essere molto chiari e precisi, altrimenti perdono di senso e diventano “domestici”. Non amo le sbavature durante la messa. La ripetizione dei gesti, la loro partitura, sono il racconto sincero delle profondità dell’animo umano, pertanto meritano enorme rispetto e una posizione evidente nello spazio e nel tempo. Alle volte, trovo molta difficoltà a lavorare con attori professionisti, poiché sono già colmi di nozioni e di “metodi”, dai quali si distaccano con remore e di mala voglia, posizioni che, spesso, si tramutano in posizioni egoiche di difficile manomissione e scardinamento, atteggiamenti che portano, solitamente, a minare l’efficacia della celebrazione.
La dimensione rituale ed esperienziale dei performer in scena è stata evidente e centrale, nell’apertura della masterclass napoletana a cui ho assistito. In tale dispositivo quale funzione hanno gli spettatori, in relazione a ciò che accade?
Di solito non amo aprire al pubblico il percorso di studio. Tuttavia, in questo caso, è stato molto utile per tutti noi comprendere come, cioè in che modo, sia stato lo spettatore il vero performer e non coloro che erano in “scena”. Alcuni spettatori hanno performato intimamente, era evidente; altri hanno voluto partecipare concretamente all’atto ed è stato bellissimo. Hanno cantato con noi, hanno preso in mano le reliquie, si sono fatti spogliare e accarezzare dalla luce del sole.
Posto che la storia dell’arte è anche e soprattutto storia delle forme, quale tipo di fedeltà ti prefiggi e quali tradimenti ti concederai, rispetto allo stile di Hermann Nitsch?
Ho imparato a tradire, con rispetto, già da molto tempo. Nel bene e nel male, è sempre il corpo a comandare la mente e se il corpo ti guida in una direzione, allora, vuol dire che è la direzione giusta. In me, questo mito dipinto da Nitsch ha una forma già molto chiara ma non la considero un punto di arrivo. La messa in scena non è mai un punto di arrivo, al contrario, è da lì che iniziamo a percorrere quel canale luminoso che apre alle moltitudini del suono, attraversando spazi infiniti. È lì che avviene la creazione. Lì troverò tutti gli elementi utili al tradimento che altro non sarà che l’essenza di questo mito visto da Nitsch. Dunque, sarà un tradimento che non si distanzierà dalla sua visione ma la riconfermerà.
Infine: la Fondazione Morra di Napoli, che custodisce tra gli altri l’Archivio del tuo e vostro lavoro, ha pubblicato moltissimi testi di Nitsch, oltre a realizzare il Museo a lui dedicato. Posto che le arti performative sono ontologicamente temporali e impermanenti, quale durata auspichi per questo tuo progetto?
Finché avrò vita, la durata della vita. È difficile rispondere a questa domanda per me che sono sempre in un altro tempo e ancora credo che tutto sia possibile. Federico ed io, grazie alla sua costanza, passione e determinazione, devo dirlo, siamo ormai nell’onda di un flusso che abbiamo determinato e sappiamo che la pazienza è davvero una virtù che va coltivata con amore, soprattutto per chi ha poche chance in questo sistema dove anche l’arte è diventata un bene di consumo.
E per la tua arte?
Risponderei con un sorriso, perché è una questione – la mia arte – legata direttamente a qualcosa di profondo, di commovente. Non sono scisso dalla mia arte, la considero un patrimonio, è ciò che pulsa dentro di me ed io stesso, spesso, sono meravigliato dall’infrangibilità e dall’infinitezza di questa sorgente, ancora così attiva, nonostante tutto.