Il vento soffia ma io rimango lì

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Vorremmo dedicare questo articolo a Marco Estradiz, ma chi era Marco Estradiz?

Nessuno.

Tanti anni fa abbiamo realizzato per il Comune di Forlì un percorso laboratoriale dedicato alla “Street Art”.

Avevamo vinto un bando in cui il percorso era dettagliatamente descritto, lezione dopo lezione in ogni sua parte pratica e teorica compresa l’azione performativa conclusiva ampiamente riportata.

L’esibizione finale era un’azione di gruppo con stampini in gomma a forma di grandi formiche montati in cima a delle prolunghe per creare file e assembramenti di formiche e formicai nelle case e nelle strade durante la parata del festival Il.Rof che in quegli anni si agitava ancora tra le vie cittadine.

Come colore per gli stampini era previsto l’utilizzo di gessi e carboncini, una miscela naturale e adatta a un intervento temporaneo facilmente removibile con la prima pioggia o con una veloce spazzata.

Detto questo, in realtà accadde che quando arrivammo all’esibizione finale si creò un grande inghippo:

Di chi è la strada? Di chi la gestisce? Di chi la pulisce? Di chi vi fa la manutenzione? Chi può autorizzare questa azione? Di chi è la responsabilità? Quale assicurazione ci vuole? Con quali voci?

La burocrazia andò in tilt, furono chiesti permessi alla polizia municipale, all’ente appaltatore della manutenzione delle strade, a chi faceva le pulizie, per ogni cosa ci volevano schede dettagliate sui colori, sulla misura delle formiche, se erano maschio o femmina, se parlavano ad alta voce o se avevano mal di gola…

Di fatto si trattava di un’azione per la quale “meglio chiedere il perdono che il permesso” ma una volta avviata la richiesta del permesso questa aveva aperto riflessioni molto ricche, la strada è pubblica? È un bene collettivo?

Se io compro uno spazio pubblicitario nella strada di tutti lo posso fare, è tutto regolare, ma se io compio un’azione comunicativa temporanea il cui intento non è vendere ma comunicare, allora tutto si fa più complicato, quindi cos’è che sta dentro a “collettivo”, “pubblico”, “bene comune”?

Sta di fatto che l’azione ci fu vietata.

E qui interviene Marco Estradiz.

Era una sconfitta che non poteva rimanere una sconfitta, assieme ai ragazzi del corso abbiamo realizzato una mostra fotografica che ufficialmente chiudeva il corso ma nel frattempo abbiamo progettato un altro intervento.

Abbiamo realizzato delle finte mezze sagome umane, donne, uomini, ragazzi, e le abbiamo posizionate a testa in giù dentro i vasi che erano all’ingresso del pregiato complesso del San Domenico, preparato un leggio molto elegante e stampato una targhetta che presentava l’opera di un certo Marco Estradiz gentilmente concessa dalla collezione Canterburry come fosse un’azione ufficiale di arte contemporanea.

 

 

Ci siamo studiati le posizioni delle telecamere, gli orari in cui passavano carabinieri e ronde di custodia e in una notte di nebbia abbiamo agito la nostra performance che per come era stata pensata ha mandato in tilt i vari responsabili dell’area.

Così i giornali riportavano la notizia e i testi del leggio: “Il nostro grazie va a Marco Estradiz, autore dell’opera e alla Canterburry, proprietaria della collezione per aver portato un tocco di originalità, di ironia e di creatività in una città che spesso si ripiega su se stessa appesantita dalle difficoltà quotidiane e che altrettanto di frequente non è più capace di guardare avanti”.

Si legge nella breve presentazione che accompagna queste gambe all’aria:

“Chi sono, Cos’è?… parenti prossimi, lontani vicini, altri da noi, noi, oppure idee cadute, capovolte o seminate… Non si sa… Nato come corpo di ballo, come corpo di espressione, per stimolare un sorriso, una riflessione, in uno spazio comune, gratuito.”

Ultimo ringraziamento, da parte della redazione va a Norberto Pieno e alle tigri del Burundi che hanno curato l’installazione e ci hanno così regalato un momento divertente e piacevole.

In quell’occasione fra gli altri ci accompagnò anche Filippo Venturi che oltre a essere un fotografo dalle grandi qualità, è un intrepido documentarista sempre pronto a immergersi nelle cose in movimento con aria silenziosa e super attenta a raccogliere frutti selvatici, un ottimo compagno di tante nostre “marachelle”.

 

 

Ma torniamo ai responsabili dell’area che di fronte all’installazione si sono interrogati e accusati a vicenda di non essere stati avvisati gli uni dagli altri di questa importante esposizione apparsa all’improvviso.

Finché tre giorni dopo l’allora dirigente pubblica è rientrata apposta dalle ferie e si è assunta le responsabilità di ordinare la rimozione dell’opera (per la quale avevamo lasciato anche le istruzioni nel retro del leggio).

Più avanti nel tempo confessammo con la dirigente il nostro coinvolgimento in questa azione e lei organizzò una cena conviviale con le persone coinvolte per dibattere su questa storia e in quella sede disse:

“Il mio ruolo non mi permetteva di fare diversamente da così ma di fatto per vivere insieme ci diamo continuamente delle regole e queste hanno un lento processo di nascita, quando sono pronte per essere usate spesso sono già vecchie e se non c’è qualcuno che le forza non si avvia la discussione per arrivare alle nuove regole”.

Ecco, l’arte pubblica si intreccia inevitabilmente con un senso politico e umano, il suo comunicare apre continuamente delle porte inaspettate, mette in moto un fermento in cui ci entusiasma essere immersi.

Elettrostimolazione civica”: una volta chiamavo così questa cosa qui in casa, ma attenzione, non è che ogni gesto comunicativo pubblico metta in campo questa cosa.

Oggi più che mai tutto è diventato terreno di consapevole comunicazione, anche il modo in cui si mangia il gelato, così nell’arte come in tanti altri settori si incontrano azioni forti che sono però a volte più interessanti come fotografia sociale che per la loro appartenenza all’elettrostimolazione civica, tendono più alla vetrina che alla piazza.

Negli Europei di calcio del 2021 gli inglesi si sono tolti immediatamente dal collo la medaglia del secondo posto, un gesto forte, pubblico e scenico che racconta di un malcontento che non ha niente a che vedere però con il gesto altrettanto scenico e forte con cui alle olimpiadi del 1968 Carlos e Smith alzarono un pugno con un guanto nero durante la premiazione.

Le olimpiadi del 1968 sono come un puzzle di storie pazzesche come dice Riccardo Gazzaniga all’inizio del suo imperdibile podcast A pugni chiusi, un insieme di storie di cui non vi diciamo niente perché è bello andarle a scoprire ascoltando l’audio narrazione.

Nel podcast in cui si parla dell’intreccio tra sport e politica, di guanti neri e di guanti bianchi, si parla, per noi anche di quel fermento che è il senso dell’arte pubblica.

Chiudiamo con una poesia di casa, una poesia del piccolo Arturo, quasi 4 anni, al quale scherzando dopo aver seguito i compiti dei fratelli è stato detto: “Aspetta, prima di andare a letto devi dire la poesia”.

Allora lui, molto deciso, è salito in piedi sul letto e ha improvvisato una sua poesia che ancora oggi a mesi di distanza se gliela chiedi te la ripete con la stessa convinzione: “Il vento soffia ma io rimango lì“.

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La Casa del Cuculo è una porzione di paesaggio abitata, una casa fisica un po' dispersa tra alberi e colline tra Meldola e Fratta Terme in cui vivono attualmente 6 adulti e 5 bambini, o meglio due famiglie più due presenze vaganti, o meglio una cooperativa che si occupa di partecipazione e rigenerazione sociale, un cantautore, un artista, un antropologo, un’aspirante progettista sociale, un cane ispettore che porta il nome di Kodi. Qui vi si trovano pareti in sasso, in mattoni, intonaci a cemento, a calce, in terra e pareti in paglia, un sistema di recupero delle acque piovane, le biciclette, gli alberi, gli animali selvatici e la voglia di mettersi in gioco.