Non tutti i film che creano mondi si strutturano in narrazioni complesse, né tutti i film dalla narrazione complessa costruiscono necessariamente mondi alternativi al nostro. Tuttavia, capita a volte che queste due possibilità si incontrino. Il cinema di David Cronenberg è un buon punto di intreccio.
eXistenZ (1999) permette di ripartire da dove ci siamo lasciati, vale a dire dall’incontro tra il cinema e il videogioco. eXistenZ infatti, oltre ad essere il titolo del film, è anche il nome di un nuovo videogioco frutto del genio creativo di Allegra Geller, grande ideatrice di fama internazionale. Durante la presentazione della sua nuova creazione, uno dei partecipanti attenta alla vita di Allegra, che viene però portata in salvo da Ted Pikul, giovane funzionario commerciale della casa di produzione. Per accertarsi che il gioco non abbia subito danni nell’attacco, i due sono costretti a giocare insieme.
Credo che violenza e corporeità possano essere considerate due delle principali cifre distintive non solo di questo film, ma in genere del cinema di Cronenberg: due aspetti sempre strettamente legati tra loro, poiché la violenza si esercita sempre su un corpo, producendo in esso o in chi guarda uno stato di eccitazione. Ciò che colpisce in eXistenZ è che il corpo non è solamente quello umano, ma anche quello del videogioco stesso: non esistono monitor o tecnologie avanzate (come succederà in Ready Player One), ma solamente un joystick semi-organico collegato direttamente alla spina dorsale del giocatore tramite una bioporta e per mezzo di un cordone ombelicale artificiale. In questo modo il gioco stimola lo stesso sistema nervoso del giocatore e nel suo unico corpo persona e personaggio si confondono. È interessante notare che anche il videogioco, in quanto corpo esso stesso, si ammala, si contagia, muore. Più che di videogioco, si può parlare quindi di trance o di una sorta di allucinazione indotta che porta a perdere il contatto con la realtà alla quale si appartiene. L’unico indizio della distinzione tra realtà e gioco sembrerebbe essere il libero arbitrio esercitato dalle persone ma non dai personaggi che spesso si trovano nella situazione di dire e fare cose contro la loro volontà. Questa distinzione tuttavia è assai labile e finisce per confondersi anch’essa tra le categorie della volontà e della costrizione e lo spettatore finisce per non essere più in grado di capire in quale piano di realtà o irrealtà si sta trovando. Aspetto interessante se si pensa alla stessa storia narrata, dove i ribelli che perseguitano Allegra la vogliono morta proprio perché ha messo in discussione il confine tra realtà e allucinazione.
A questo proposito trovo molto interessante l’analisi fatta da Gianni Canova nel suo libro dedicato a David Cronenberg. In particolare, lo studioso offre un’acuta osservazione sul titolo del film, affermando che l’utilizzo delle maiuscole e minuscole non va sottovalutato né confuso, poiché vanno viste come un atto dichiarativo del regista stesso: la X e la Z sarebbero così le due variabili (in termini matematici) di un film-rebus che ha perso la sua tridimensionalità per farsi riflessione sul visibile e sulla percezione nella nuova epoca mediale. Infatti, come si è visto, la distinzione tra reale e virtuale, tra mondo oggettivo e allucinazione videoludica è assi ardua da definire. Non solo, il regista si rifiuta di offrire una sorta di ordine al caos, dando al film una forma circolare senza inizio né fine.
Questo libricino di Canova, piccolo per dimensioni ma denso nei contenuti, mi aiuta a proseguire nell’analisi, passando a Videodrome che, a onor del vero, è precedente, più esattamente del 1982. In Videodrome non c’è il videogioco, bensì la televisione. Un apparecchio mediale alquanto strano tuttavia, poiché pare prendere vita. Un altro tassello di quella riflessione sul panorama mediale all’interno del quale ci troviamo immersi.
Protagonista di questa storia è Max Renn, presidente di Canale 83, stazione televisiva che incentra la sua proposta su una serie di programmi violenti e pornografici in grado di stimolare una forma di eccitazione nello spettatore. Max vorrebbe riuscire ad intercettare i produttori di un nuovo e violento spettacolo, Videodrome, per poterlo acquisire, ma finirà per divenire vittima dei poteri allucinatori del programma.
“Realtà è percezione della realtà”, afferma O’Blivion, il creatore di Videodrome. Questa frase credo sia una chiave di interpretazione che vale un po’ per tutto il cinema di Cronenberg: anche in questo caso infatti realtà e allucinazione, vero e falso si confondono al punto che il personaggio e lo spettatore insieme a lui non sono più in grado di discernere. Per questo motivo il film può essere considerato anche una sorta di manifesto d’intenti: gli elementi ci sono tutti, dalla riflessione sui media a quella sulla corporeità fino alla messa in discussione della definizione ontologica di realtà. In un mondo dove la televisione è una vera e propria dipendenza di cui si dispensano le dosi giornaliere, Cronenberg innesta la sua riflessione sullo statuto dell’immagine mass-mediale e sui suoi effetti sul corpo degli spettatori. E lo fa attraverso una moltiplicazione dei punti di vista che rende instabile la narrazione.
Questa instabilità narrativa è la cifra distintiva di Spider (2002), la storia di un uomo affetto da schizofrenia (magistralmente interpretato da Ralph Fiennes), alle prese (forse) con la memoria del suo passato. Forse perché anche in questo caso non è chiaro quale sia la realtà, quali i veri ricordi e quali frutto della distorsione della mente malata del protagonista. A questo proposito, Gianni Canova, nella sua analisi, sottolinea un dettaglio interessante: dopo i titoli di testa, la macchina da presa si muove su un carrello lungo i binari del treno alla ricerca del suo protagonista, ponendo chiaramente in primo piano il numero 47774 scritto sul lato del vagone. Si tratta di un palindromo, uguale cioè se letto da destra o da sinistra e che confonde così l’inizio con la fine e con tutto quello che ci sta in mezzo. Ecco, anche Spider è un palindromo dove i personaggi e i loro volti si sovrappongono e si confondono. In ogni parte del film non è mai chiaro chi è chi e chi ha fatto cosa.
Con Spider si aggiunge quel tassello mancante alla teoria del mind-game film di Elsaesser più volte accennata in precedenza: da un lato la dimensione del gioco, del disorientare lo spettatore lanciandogli la sfida di mettere ordine al caos, e dall’altro la dimensione della mente. In un certo senso, si può dire che anche Spider crea un mondo, frutto della mente schizofrenica del suo protagonista. Un mondo dunque raccontato da un narratore non attendibile che fonde memoria e allucinazione in un’unica cornice, così che nella stessa immagine si può vedere lui da adulto osservare se stesso da bambino e anticipare le sue battute. La teorizzazione di Elsaesser pone al centro proprio film di questo tipo: la differenza con la semplice narrazione complessa risiede nel fatto che Spider, come altri, privilegia questo punto di vista “malato” che non diviene dunque un semplice escamotage per ingannare lo spettatore prima di fornirgli la risposta, ma uno strumento per riflettere sul complesso confine tra le categorie di sano e malato, pazzo e ragionevole, vittima e carnefice. Così facendo, questo tipo di film diventa una riflessione non tanto sulle singole patologie, quanto in generale sulle questioni legate all’identità.
Dunque, che cosa è successo? Si tratta di un sogno o della realtà? È forse un’allucinazione o il sovrapporsi di reale e immaginazione? Quanto c’è di vero in ciò che ricordiamo? A quanta dose di manipolazione è soggetta la nostra memoria? E, alla fine, chi siamo? Sono queste le domande che ci pongono i film di Cronenberg, domande esistenziali, strettamente legate all’essere umano. Il privarci volontariamente di una risposta fa parte del gioco e della riflessione del regista: forse una risposta non c’è? O forse ognuno ha la propria? “Realtà è percezione della realtà”.