Ora che ci siamo addentrati nel mondo del cyberpunk e dei videogiochi è il caso di fare un salto in avanti negli anni. Si tratta infatti di un filone cinematografico particolarmente fruttuoso che, dopo la sua esplosione negli anni Ottanta, è arrivato fino ai giorni nostri. Nel 2010 esce Tron: Legacy di Joseph Kosinski, prodotto da Disney, e nello stesso anno prende il via anche l’avventura produttiva di Ready Player One, che uscirà nel 2018 firmato Steven Spielberg.
Parlare di Tron: Legacy senza soffermarsi prima sul suo predecessore diretto da Steven Lisberger sarebbe un’operazione insensata. Per questo è il caso di tornare al 1982 e vedere i due film insieme. Il genio creativo di Kevin Flynn viene cacciato dalla casa di produzione Encom da Ed Dillinger, che si impossessa delle sue creazioni. Le prove della truffa sono nascoste all’interno del sistema informatico dell’azienda che Flynn cerca di raggirare attraverso la creazione di nuovi programmi. Ad aiutarlo ad introdursi nel sistema saranno Alan e Lora, due ingegneri della Encom contrari alle nuove politiche di direzione e al nuovo Master Control Program (MCP) ideato da Dillinger che impedisce ai creativi di sperimentare nuovi programmi all’interno della Rete.
Dal punto di vista storico, il primo Tron rappresenta un passo cruciale: innanzitutto si inserisce in quella tendenza che cerca di avvicinare la fantascienza al grande pubblico, compreso quello familiare a cui guarda la Disney. Tale obiettivo emerge chiaramente nella netta distinzione tra bene e male che rimanda a un topos tipico della narrazione disneyana e che in questo caso è graficamente segnalato dai colori blu e rosso (un rimando a Star Wars? Potrebbe essere, considerato anche che nel sequel del 2010 il protagonista tenta erroneamente di utilizzare un oggetto come se si trattasse di una spada laser). Inoltre, per la grande casa di produzione americana, il fim di Lisberger rappresenta una scommessa: primo a fare largo uso della computer grafica, Tron arriva in un momento di crisi per la società, con il compito di risollevarne le sorti.
All’interno del film, realtà fisica e realtà virtuale restano separate e riconoscibili, come accadrà in Nirvana di Salvatores. Tuttavia in Tron il protagonista in carne ed ossa entra all’interno del mondo virtuale tramite un processo di smaterializzazione. Questo significa che le due realtà risultano separate sia sul piano estetico e formale sia su quello esistenziale: la Rete non ha concrete potenzialità di influenza sul reale. Se la corporeità è elemento centrale per molti film del genere, in questo caso si assiste invece alla totale smaterializzazione del corpo. Di contro alla smaterializzazione del corpo, all’interno della Rete si assiste all’umanizzazione dei programmi dalle fattezze umane e dotati di coscienza e sentimenti. Un elemento ulteriore, che caratterizzerà molta fantascienza degli anni successivi, è il superamento di un’ibridazione uomo-macchina a favore di una tecnologia digitale che si ribella al suo creatore, aspirando a divenire autonoma.
Questo completo distacco tra realtà fisica e realtà virtuale porta a vedere il mondo della Rete come una sorta di film dentro al film: in effetti esso è dotato di una trama vera e propria e anche di un genere che si avvicina alla distopia. Infatti, la società all’interno della Rete è organizzata secondo specifiche categorie: ogni nuovo programma al suo arrivo viene indirizzato a un settore e ogni settore lavora per un sistema che vive sotto il totale controllo di MCP. L’obiettivo di MCP è combattere la fede nei creativi, dando vita una società di programmi omogenei e alienati. I fedeli nei creativi vengono mandati in un’arena dove si battono fino alla morte: un topos culturale che rimanda ai gladiatori dell’antica Roma e che, visto a posteriori, richiama anche altri grandi giochi distopici, gli Hunger Games.
Queste caratteristiche rimangono pressoché invariate in Tron: Legacy: tornano la divisione netta tra bene e male, il film dentro al film, la smaterializzazione del corpo e l’umanizzazione dei programmi. In particolare si accentua il rimando alla distopia con un discorso sulla ricerca della perfezione: Clu è ossessionato dal tentativo di costruire un sistema perfetto, che vede le varianti come minacce da eliminare. Un aspetto caratteristico della distopia più tradizionale, spesso ambientata in un mondo post bellico dove la classe dominante ha dato vita a un sistema apparentemente perfetto per vincere gli impulsi di distruzione umana. Nonostante sia evidente il progresso tecnologico e cinematografico compiuto negli anni, Tron: Legacy non aggiunge in realtà molto al suo precedente, né esercita il medesimo fascino. Penso tuttavia che sia una tappa da non dimenticare, perché fa emergere una tendenza caratteristica per la fantascienza degli anni Duemila: il culto per la cultura degli anni Ottanta, che si afferma nei film attraverso le scelte musicali, l’estetica e soprattutto il citazionismo che rimanda a un complesso di prodotti culturali e mediali dell’epoca.
È proprio questa ossessione che caratterizza Ready Player One di Steven Spielberg, tratto dall’omonimo romanzo di Ernest Cline. In questo caso il gioco registico, che strizza l’occhio agli spettatori più attenti, viene giustificato dalla storia stessa: James Hallyday, creatore del grande mondo virtuale di OASIS, alla sua morte nasconde all’interno del gioco tre chiavi che i giocatori potranno rintracciare solamente immergendosi totalmente nella biografia del suo creatore. In palio per il vincitore c’è la proprietà di OASIS stessa. Essendo Hallyday un grande appassionato della cultura giovanile anni Ottanta, il film non può che essere disseminato da questi elementi, talvolta più espliciti (come nel caso di Jurassic Park, King Kong, Minecraft, Gundam, per citarne alcuni), altre volte che passano in secondo piano per un occhio meno allenato. Queste citazioni non sono solo un gioco voyeuristico, ma rappresentano l’elemento chiave di una riflessione sul cinema e sul suo rapporto con il panorama mediale che lo circonda. Attraverso l’utilizzo di finestre che simulano gli schermi, sale cinematografiche immersive e interfacce digitali, Ready Player One contrappone le caratteristiche prettamente cinematografiche a quelle dei media che lo circondano e lo influenzano.
Anche in questo caso realtà fisica e realtà virtuale sono ben distinte graficamente: da un lato il live action e dall’altro la CGI, da un lato esseri umani e dall’altro avatar, da un lato una colorazione satura tendente al grigio e dall’altro una palette sgargiante. Nell’analisi di Mauro Di Donato in Steven Spielberg, lo studioso evidenzia anche un complesso di opposizioni concettuali, oltre che visive, tra le due realtà: la verticalità con cui viene rappresentata la realtà fisica rimanda a un concetto di costrizione, mentre la profondità con cui viene esplorato OASIS richiama un senso di libertà espresso da Hallyday stesso. Nonostante ciò, le due realtà sono strettamente collegate: ciò che accade nel mondo virtuale si riflette in quello reale e viceversa. I protagonisti percepiscono contemporaneamente i due spazi e la corporeità in questo caso è tutt’altro che annullata: ogni fattore che coinvolge il corpo del giocatore interessa anche il suo avatar e viceversa, grazie all’utilizzo di tute e attrezzature da gioco ipersensibili. Il corpo dei giocatori in carne ed ossa deve quindi effettivamente muoversi nello spazio reale per poter sposare il suo avatar, mentre ogni cosa che accade a quest’ultimo viene percepita come reale dal giocatore.
La presenza di grandi apparecchiature di gioco e l’insistenza sulla corporeità possono apparire un po’ antiquate se si pensa ad altri titoli contemporanei e non che insistono sulla totale convergenza tra reale e virtuale e sulla compresenza di realtà parallele. In realtà, questi elementi non rendono solo Ready Player One molto più vicino alla nostra realtà di quanto non sembri, essendo ambientato in un futuristico 2045, ma sono portati a sostegno proprio di quella riflessione sul cinema e sul suo processo di evoluzione all’interno di uno spazio mediale più complesso. Nonostante il film sia pieno di riferimenti (a questo proposito, Di Donato offre un’accurata analisi della scena in cui viene citato The Shining di Kubrick), il momento in cui tutto è reso esplicito è la chiamata alle armi di Parzival a cui rispondono migliaia di avatar: se si guarda con attenzione, Spielberg è in grado di raccogliere in una sola scena centinaia e centinaia di personaggi sono solo del cinema, ma anche dei fumetti, del cartoon, dei videogiochi. Uniti sul campo di battaglia per combattere insieme un unico nemico, tutti questi personaggi si mescolano, si confondono, si fondono insieme. Una splendida immagine del panorama mediale del nostro tempo di cui il cinema fa inevitabilmente parte.
I più cinefili potrebbero forse inorridire di fronte a questo mio accostamento tra Tron e Ready Player One, vedendo il primo come mera operazione mainstream e il secondo come una grande prova di cinema d’autore. E mi troverebbero certamente d’accordo. Ciò che trovo tuttavia affascinante nell’accostarli è la contrapposizione che emerge tra smaterializzazione e corporeità, una riflessione che tocca la nostra contemporaneità nel profondo, in un mondo sempre più digitale che spesso tende a dimenticare quanto in verità la nostra vita sia intrinsecamente legata alla nostra corporeità.