Due facce della stessa medaglia, opposte e complementari: le abbiamo incontrare ieri, 13 maggio 2022, al Teatro Arena del Sole di Bologna. In scena prima Kassandra, testo dell’arcinoto Sergio Blanco e a seguire, in prima nazionale, Il paradiso perduto del Teatro La Ribalta, con testo e regia di Antonio Viganò, anch’egli un’autorità, nel panorama teatrale degli ultimi decenni.
Scriviamo di getto, senza alcuna pretesa di esaustività, ma mossi dal desiderio di invitare gli eventuali lettori di queste righe a incontrare queste opere: Kassandra sarà ancora a Bologna fino al 22 maggio, dal 31 maggio al 12 giugno a Modena (ancora ospite di ERT), poi certo in giro: le occasioni non mancheranno.
Il paradiso perduto è ancora questa sera a Bologna, a metà giugno sarà a Milano, a fine giugno a Napoli. E poi. E poi.
Alcuni elementi accomunano questi lavori, altri li differenziano radicalmente.
In sintesi.
Entrambi accolgono gli spettatori in un ambiente povero e dimesso tra fumo, luci basse e rumori ferrosi: una condizione che annuncia tragedia.
Entrambi istituiscono un rapporto dialettico tra misura e dismisura, tra la norma / normalità e l’eccederla.
È delicata e sguaiata, dolente e comicissima, muscolare e fragile, la figura incarnata dall’istrionica Roberta Lidia De Stefano, il cui raffinato lavoro scenico contribuisce grandemente a instaurare con lo spettatore una modalità convenzionale di fruizione del fatto scenico: le si riconosce immediatamente e naturalmente una competenza, una téchne che la connota e distingue dai non artisti, che convintamente e ripetutamente plaudono al suo ottimo lavoro.
Analogamente, la comunità di “danzatori e attori-di-versi” presenta una notevolissima perizia nel dare corpo alle geometriche e carnali visioni di Antonio Viganò, tra teatro e danza, letteratura e sua trasduzione drammaturgica (il testo di partenza è il celeberrimo Frankenstein di Mary Shelley, intrecciato ad alcuni temi del seicentesco Paradise Lost di John Milton).
In entrambi i casi protagonisti sono esseri umani che, per condizione o per evocazione, si situerebbero ai margini -o più spesso oltre i margini- del bello, del degno di ammirazione o addirittura di accettazione.
In entrambi i casi -è ovvio, ma non basta mai ripeterlo- la questione è il linguaggio, il trattamento che i segni messi in campo realizzano del materiale di partenza.
Eccesso, si diceva.
La Kassandra diretta da Maria Vittoria Bellingeri deborda un genere (maschile) per approssimarsi all’altro, una lingua (inglese semplificato, pronunciato con accento dell’Est) in altre, un linguaggio (pienamente ascrivibile al teatro: un corpo-voce che si muove in uno spazio scenico interpretando un personaggio) a un altro (un’artista che in scena canta e suona).
Da par sua, Il paradiso perduto travalica la sospensione dell’incredulità comunemente alla base del patto teatrale proponendo un intrigante cortocircuito tra verità e finzione o, meglio, tra presentazione e rappresentazione della non conformità, tra corpi biologici (gli straordinari interpreti) e sintetici (i bambolotti che aprono e chiudono lo spettacolo), tra narrazione (la vicenda messa in scena) ed evocazione (le coreografie di marca bauschiana).
La misura, ça va sans dire, è data dalla forma posta in essere grazie alla maestria degli artisti coinvolti. Dall’esattezza, dunque dalla plausibilità fenomenologicamente in quanto tali delle luci, dei movimenti di scena, del rapporto tra parole e silenzio, tra rumori e musiche, tra suoni registrati e prodotti dal vivo, tra inquietudine e ilarità, tra tragedia e poesia.
Tra i molti elementi di radicale diversità di questi due lavori, vale ora nominarne almeno due, lampanti.
Uno produttivo: Kassandra è un assolo -ancorché popolato- dunque probabilmente più facilmente distribuibile, mentre Il paradiso perduto vede al lavoro ben nove interpreti -per di più con specifiche fragilità ed esigenze- e una scena con due scalinate parallele in cui collocare il pubblico fra le quali accade lo spettacolo, dunque immaginiamo con una circuitazione più impegnativa.
Uno di sintesi.
Nel testo di Blanco (arrivato a circa ventisette diversi allestimenti nel mondo, come l’autore stesso ha ricordato ieri sera in un breve incontro al termine dello spettacolo) prevale l’ironia, termine qui usato sia in senso comune -si ride e sorride spesso- sia in senso socratico di distanza tra sé e ciò che si enuncia: “Life is a tragedy, but funny”, citiamo a memoria, ma queste sono all’incirca le parole che chiudono Kassandra.
Al contrario Il paradiso perduto è, nomen omen, tragedia senza redenzione: morte della Creatura, impossibilità per lui dell’amore, assenza di Dio, reiterata indifferenza al suo dramma da parte del gruppetto di donne, concentrate unicamente ad esprimere la contentezza per il proprio bebè: “Ben fatto, proprio ben fatto!” ripetono indifferenti al cadavere della Creatura a pochi centimetri da loro, che in precedenza avevano più volte calpestato dopo una sequenza di frasi auto-consolatorie pronunciate allo specchio.
Al termine dei due spettacoli, ieri la serata all’Arena del Sole è continuata con un dj set che ha visto nuovamente protagonista Kassandra.
Pur apprezzando grandemente la volontà di allargare le modalità di possibile incontro con i pubblici noi non abbiamo partecipato: più di tante cose negli occhi non ci possono stare, in un giorno solo.