お持て成し si pronuncia “omotenashi” ed è uno degli aspetti fondamentali della cultura giapponese. In italiano solitamente lo si traduce con “ospitalità”, ma in realtà è un concetto filosofico molto più profondo della mera attenzione nei confronti dell’ospite; più che un dovere formale l’omotenashi è un dovere morale, la capacità di rinunciare a sé per rendere completo merito a colui di cui ci si prende cura. E in My Small Land, sentiremo molte volte questo termine.
Esordio alla regia della trentunenne Emma Kawawada che dopo essere stato presentato in anteprima mondiale alla Berlinale, nella sezione Generation, ha illuminato il grande schermo del Teatro Nuovo Giovanni da Udine durante la ventiquattresima edizione del Far East Film Festival in Italian Première.
Se inizialmente si può pensare che il film giapponese di Kawawada sia in primo luogo un dramma di denuncia sociale dedicato a descrivere l’ardua condizione degli immigrati in Giappone, paese che si fa vanto della propria cultura dell’ospitalità, il focus quasi totalizzante sulla ragazza (che conquista lo spazio dell’inquadratura anche nella prima sequenza, quando viene introdotta come una comparsa) ribadisce la natura di coming of age di My Small Land.
Ma facciamo un passo indietro: calano le luci in sala e lo spettatore viene invaso da un incipit etnografico: colori, musiche e la magia di un matrimonio curdo. Sul palmo delle mani degli invitati si intravede il simbolo dell’hennè: è un momento veramente magico perché se tenuto per tutta la notte, otterrà il colore rossiccio (simbolo che più avanti vedremo sulla mano della protagonista, che tenterà in ogni modo di convincere che sia pittura e non un simbolo della sua tradizione).
Infatti la diciassettenne Sarya (Arashi Lina) come sua sorella e suo fratello più piccoli è cresciuta in Giappone e ne parla correntemente la lingua, comunicando in giapponese persino col padre scontroso ma bonaccione, visto che la sua conoscenza della lingua curda è minima.
Lo stesso racconta ai figli del rito portato avanti per cinque anni, dalla nascita di Sarya: piantare ogni anno degli ulivi come segno di buon auspicio (azione interrotta però, poiché costretti a scappare).
E scende una lacrima allo spettatore quando si scopre che la madre è sepolta proprio vicino ad uno degli ulivi.
Scopriamo sin da subito che la regista intende focalizzare il suo occhio non solo sulla “piccola patria” di Sarya e della sua famiglia, ma sul Kurdistan, loro paese d’origine, così sconosciuto alla popolazione locale che tutti sono convinti che la ragazza sia tedesca.
Anche la sorella minore di Sarya si sente in tutto e per tutto giapponese, mentre il fratellino che frequenta la prima elementare ha qualche difficoltà in più, e si sente un alieno scisso com’è tra la quotidianità scolastica e gli insegnamenti del padre, che non vuole in nessun modo ostacolare l’integrazione dei pargoli ma desidera che non dimentichino mai le loro origini.
Anche perché il Kurdistan, come sottolinea alla figlia, è da sempre un luogo del cuore e della mente, esiste ovunque (“tra questo sasso e quello curdo non c’è nessuna differenza”) – una tensione inevitabile per un popolo che, spartito tra Siria, Iraq, Iran e Turchia è sempre stato trattato con durezza e messo ai margini in tutte e quattro le nazioni –, forse persino a Saitama, nella quale sono confinati Sarya e i suoi famigliari quando lo status di rifugiati viene loro negato.
Lei vorrebbe solo pensare al suo presente e al suo futuro, ma non può disancorarsi dal passato.
Sarya è il punto di riferimento di una piccola comunità curda che ha difficoltà con la lingua, viene vista con diffidenza, è in maniera inevitabile costretta a lavori umili e si riunisce per preservare la propria identità, che in Sarya è scissa, e non sa davvero trovare riconciliazione.
Con uno stile pulito e minimale, e un’asciuttezza del racconto, Kawawada traccia un ritratto umano che diventa in maniera naturale anche presa di posizione politica, denuncia del marcio che si agita sotto una superficie linda, quasi inscalfibile nella sua apparente purezza.
Molto toccante la scena in cui la giovane protagonista, sola col padre (e vestita con abiti tradizionali) in un autobus pieno di giapponesi, si mette a fissare il suo riflesso sul finestrino, guardando come cambiano i tratti del suo viso mentre il mezzo attraversa vari passaggi notturni.
La convenzionale immagine del vetro/specchio (che difatti ritorna in vari momenti significativi della pellicola) come strumento per riflettere sulla propria identità e sui suoi cambiamenti rispecchia solo la protagonista, i suoi tormenti e i suoi cambiamenti.
D’altronde fin dal titolo è l’Io a venire enfatizzato.
Il Giappone non è un paese accogliente per i rifugiati: nel 2019, su 10.375 domande per lo status di rifugiato, ne sono state accolte solo 44.
Le procedure per ottenere tale status sono lunghe e complesse, visto che richiedono in media un periodo di quattro anni, con molti ostacoli burocratici da superare e norme legislative da osservare.
I richiedenti possono ricevere sussidi dallo Stato e hanno il permesso di lavorare, ma le somme ricevute e guadagnate sono appena sufficienti per sopravvivere.
E chi viene trovato in condizione di illegalità per via di un permesso di soggiorno scaduto o altro, come il padre di Sarya, viene rinchiuso in uno dei 17 centri di detenzione dove le condizioni sono notoriamente difficili e troppo spesso fatali.
Arashi Lina, attrice di etnia mista il cui padre, prima di diventare cittadino giapponese, era iraniano, disegna con sensibilità il dilemma di Sarya che è intrappolata tra due culture senza appartenere completamente a nessuna delle due e che, malgrado nelle prime scene del film parli e si comporti come una tipica adolescente giapponese, vive con un’ombra di ansia e paura che continua ad allargarsi.
My Small Land non fornisce risposte facili, ma solo la dura verità che, per profughi come Sarya e la sua famiglia, la tanto sbandierata omotenashi giapponese diventa un’amara ironia, mentre le loro possibilità di scelta si riducono alla detenzione o alla deportazione verso una “madrepatria” di miseria e oppressione o, nel caso dei curdi apolidi, lo spettro dell’arresto, della tortura e della morte.
È raro nel cinema giapponese odierno imbattersi in opere prime che abbiano la voglia di allargare il discorso a una visione della “patria”, e del comportamento delle istituzioni.
Anche per questo My Small Land, in 114 minuti, appare coraggioso, in grado di svelare ciò che si muove sotto la coltre in cui si protegge la nazione.
E sentiamo dei brividi a leggere le parole del brano finale affidato ai titoli di coda, che dice: “Quale canzone canteremo? Anche se domani il sole non sorgerà, non ci arrenderemo e saremo ancora qui. Saremo ancora qui… Sei ancora qui?”.