Benoit Jacquot, che di lei fu a 20 anni aiuto-regista, riporta sul grande schermo Gli amori di Suzanna Andler un testo drammaturgico di Marguerite Duras del 1968, dalle cadenze e dai tempi molto intimi, che la stessa scrittrice aveva già trascritto nel suo film del 1977 Baxter, Vera Baxter.
È una narrazione dunque, se vogliamo, un po’ datata ma che conserva intatta la sua forza di introspezione anche nell’oggi, essendo concepita in un momento in cui si avviava e si consolidava la comune riflessione sulla condizione femminile quale si stava determinando, all’interno dei profondi mutamenti, sociologici e politici, che coinvolgevano la Società nel suo insieme.
In effetti, diversamente da quanto spesso abbiamo modo di vedere in questi ultimi anni dominati dal cosiddetto genere e dalla sua autoreferenzialità, era allora uno sguardo che inquadrava la condizione femminile nella più generale condizione umana, in una società e classe borghese avviata, tra solitudine e incomunicabilità, alla dispersione e all’oblio di un neo-liberismo sempre più segnato da una egemonia che dal campo economico sconfinerà, sfumata ogni idea collettiva e di condivisione, nel rogo di identità e valori che ci circonda.
Un film dunque ineluttabilmente molto teatrale, a ricordare atmosfere nordiche alla Ingmar Bergman ovvero la freddezza dei deserti di Antonioni, ma anche, dal punto di vista della sintassi cinematografica capace di suggerire, più che la nouvelle vague pur presente in certi stacchi di inquadratura, il quasi dimenticato cinema, narrativamente così diverso, di John Cassavetes per la sua continua ricerca del volto, con i primi piani un po’ mossi della cinepresa a spalla.
Un racconto di profondità che si affacciano così agli sguardi quasi stuporosi e insieme dolorosamente incerti dei protagonisti, alla ricerca di un senso per una vita nella quale solo la ricchezza sembra aver conservato un posto, un valore (ultra-economico ormai), ed una finalità, mentre anche i ruoli più tradizionali della società borghese (la famiglia, il lavoro, il comando) vanno decomponendosi insieme a ciò che dovrebbe prendere il loro posto.
Come di consueto è il femminile, è la donna nel suo ruolo ormai non accettato e non più introiettato che mostra in evidenza la faglia di questo generale slittamento nella solitudine reciproca, ove i sentimenti sembrano i residui di una vecchia retorica.
È la donna che sembra più di altri soffrirne, ma la donna è anche quella che sembra (sembrava?) essere in grado di cercare una risposta e un riscatto. Con una sofferenza ed una fatica forse destinata, sin dal principio, all’insuccesso.
Una intenzionalità evidente che percorre, come la trama il suo tessuto, tutto il film ma che peraltro non sempre si dispiega con coerenza ed efficacia.
Non è un remake infatti e giustamente, al contrario sembra quasi una “riflessione” sul testo della Duras, ma una riflessione che come uno specchio rischia una eccessiva distanza, consumandosi così per troppa razionalizzazione, in quell’atteggiamento molto francese in cui tutto sembra farsi freddo e talora noiosamente risaputo.
È come un sottile fastidio in cui appunto rischia di interrompersi il filo che lega il pensiero al sentimento più profondo.
Data di uscita: 21 aprile 2022 | Genere: Drammatico | Anno: 2021 | Regia: Benoît Jacquot | Attori: Charlotte Gainsbourg, Niels Schneider, Nathan Willcocks,Julia Roy | Paese: Francia | Durata: 91 min | Distribuzione: Wanted Cinema | Sceneggiatura: Benoît Jacquot | Fotografia: Christophe Beaucarne | Montaggio: Julia Gregory | Produzione: Les Films du Lendemain, Les Films du Losange, Ciné+